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16Nov98
Sentenza della Corte Suprema di Cassazione
(Caso Fosse Ardeatine: Erich Priebke e Karl Hass)
Back to topSentenza della Corte Suprema di Cassazione, in data 16.11.1998
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Corte Suprema di Cassazione Sezione Prima Penale composta dagli Ill.mi Sigg.:Dott. SACCHETTI Francesco - Presidente
Dott. GEMELLI Torquato - Consigliere
Dott. ROSSI Bruno - Consigliere
Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere relatore
Dott. DELEHAYE Enrico - Consigliere relatoreha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) HASS Karl, nato a Elmscherhagen (Kiel - Germania) il 5.10.1912
2) PRIEBKE Erich, nato a Berlino (Germania) il 29.7.1913
avverso la sentenza della Corte militare d'appello in data 7 marzo1998 che, in parziale riforma di quella 22 luglio 1997 del Tribunale militare di Roma, condannava entrambi gli imputati alla pena dell'ergastolo per il reato di "concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani" (artt. 13 e 185, co. 1 e 2, c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575, 577, nn. 3 e 4, 61 n. 4 c.p.), in Roma località Cave Ardeatine il 24 marzo 1944.
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere, dott. Giovanni Canzio;
Udito il P.M. in persona del sostituto Procuratore Generale militare, dott. Vittorio Garino, il quale ha concluso: per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente al diniego delle attenuanti generiche e dell'attenuante prevista dall'art. 59 n. 1 c.p.m.p., e per il rigetto nel resto dei ricorsi degli imputati; per l'accoglimento del ricorso della parte civile Roberto Massari e per la condanna degli imputati alla rifusione delle spese sostenute dalla medesima parte civile nel giudizio di secondo grado;
Uditi i difensori delle parti civili: avv. P. Nicotera, avv. Domenico Panetta, avv. Sebastiano Di Lascio, avv. Marcello Gentili, avv. Giancarlo Maniga, avv. G. Lo Mastro, avv. Bruno Andreozzi, avv. Paolo A. Sodani;
Uditi i difensori degli imputati: avv. Alberto Pisani per Karl Hass; avv. prof. Carlo Taormina e avv. Giosué Bruno Naso per Erich Priebke.
FATTO
1.- I tragici eventi di cui è causa sono stati ampiamente ricostruiti nei diversi giudizi di merito celebrati dal dopoguerra ad oggi, secondo percorsi di lettura sostanzialmente omogenei in linea di fatto, ma che devono essere necessariamente rammentati - sia pure in sintesi - in questa sede.
Alle ore 15 del 23 marzo 1944 all'interno della città di Roma, in via Rasella, al passaggio di una compagnia di polizia tedesca del battaglione "Bozen" avveniva lo scoppio di una carica di esplosivo accompagnato dal lancio di bombe a mano: all'esito dell'attentato, opera di una squadra di partigiani italiani appartenente all'organizzazione clandestina di resistenza contro le forze militari occupanti, perdevano la vita trentadue soldati tedeschi.
Il ten. col. delle SS Herbert Kappler, comandante dell'Aussenkommando della polizia e del servizio di sicurezza di via Tasso durante l'occupazione di Roma da parte delle forze armate tedesche, giunto poco dopo sul posto con i suoi diretti collaboratori, ebbe immediato incarico dal gen. Maeltzer, comandante tedesco di Roma, di occuparsi dell'attentato; ma la ricerca e la punizione degli autori dell'attentato non costituì la fondamentale attività dell'autorità militare o di polizia, perché nel corso di una conversazione svoltasi alle ore 17 fra il Maeltzer e il Kappler, interrotta da colloqui telefonici con il gen. von Mackensen, comandante della 14a armata, si discusse esclusivamente del tema delle misure di rappresaglia da adottare mediante fucilazione di un non ancora definito numero di persone disponibili - fra quelle che erano state condannate a morte o all'ergastolo o arrestate per reati punibili con la morte: c.d. "todeswurdige" -, fino al limite di dieci di esse per ogni militare tedesco deceduto; il Kappler fu incaricato di preparare l'elenco di tali persone.
Ritornato in ufficio ed appreso che dal m.llo Kesserling era giunto l'ordine - impartito "da molto più in alto", forse addirittura da Hitler - di fucilare entro 24 ore un numero di cittadini italiani decuplo di quello dei soldati morti, il Kappler ebbe una conversazione telefonica col gen. Harster, conclusasi con la determinazione di integrare l'ancora insufficiente numero dei destinati a morte con cinquantasette ebrei detenuti in base a un precedente rastrellamento e in attesa di avviamento ai campi di concentramento; nella notte il Kappler, con l'aiuto dei suoi collaboratori, compilò una lista di duecentosettanta persone e la mattina successiva fece richiesta alla polizia italiana di preparare una seconda lista - denominata "Caruso" dal nome del questore dell'epoca - di altre cinquanta persone, scelte fra i detenuti a disposizione di quella polizia, onde raggiungere il numero di trecentoventi fissato per la rappresaglia.
Nel corso di un incontro svoltosi alle ore 12 del 24 marzo nell'ufficio del gen. Maeltzer, a seguito delle difficoltà frapposte dal magg. Dobrik del battaglione Bozen e dal col. Hanser del comando della 14a armata all'esecuzione della rappresaglia con i propri uomini, fu ordinato al Kappler di provvedere ad essa nel numero di trecentoventi persone indicate nelle liste.
Il Kappler, riuniti a rapporto gli ufficiali, dispose che tutti gli uomini del suo comando partecipassero all'esecuzione agli ordini del cap. Schutz, mediante l'esplosione di un solo colpo di pistola alla testa di ciascuna vittima, mentre il cap. Priebke fu incaricato del controllo del numero delle persone via via fucilate e il cap. Kochler di trovare una cava idonea per l'esecuzione, i cui ingressi si potessero chiudere in modo da trasformarla in camera sepolcrale; ciascuno degli ufficiali avrebbe dovuto eseguire personalmente almeno una uccisione a fini d'esemplarità per la truppa; informato poco dopo del sopravvenuto decesso di un altro soldato tedesco, il Kappler dispose d'includere nell'elenco altri dieci ebrei arrestati quella mattina.
La fucilazione ebbe luogo a partire dal pomeriggio fino alla sera del 24 marzo all'interno delle Cave Ardeatine: nell'antistante piazzale giungevano gli autocarri con le vittime, provenienti - quelle della lista tedesca - dal carcere di via Tasso e - quelle della lista "Caruso" - dal carcere di Regina Coeli; le operazioni erano dirette dal cap. Schutz, il quale avvertì i militari della truppa che quanti non si sentivano di sparare non avevano altra via d'uscita che mettersi accanto alle vittime designate; cinque soldati tedeschi prendevano in consegna cinque vittime, le accompagnavano in fondo alla cava debolmente illuminata da torce, le costringevano a inginocchiarsi - col passare delle ore anche sopra i cadaveri accatastati di coloro che le avevano preceduti - con la testa reclinata in avanti e ciascuno di essi sparava un colpo di pistola alla nuca della persona in consegna; i cadaveri, trasportati da alcuni soldati, venivano ammucchiati fino all'altezza di un metro, in fondo alla cava, alla vista di coloro che entravano subito dopo avere sentito le grida e gli spari; ciascuno degli ufficiali partecipò personalmente almeno ad un'esecuzione; il soldato Amons, inorridito dallo spettacolo, svenne e non ebbe la forza di sparare, sostituito a tal fine dai suoi commilitoni; l'esitante soldato Wetjen fu accompagnato dallo stesso Kappler all'interno della cava; i nomi delle vittime venivano cancellati di volta in volta dall'elenco tenuto dal cap. Priebke, rimasto sul posto fino alle ore 19 quando ebbe termine l'eccidio; ciascuno degli ufficiali eseguì personalmente almeno due uccisioni per dare l'esempio alla truppa; subito dopo alcune mine fatte brillare chiusero l'accesso alla cava.
I morti furono complessivamente trecentotrentacinque, quindici in più rispetto ai trecentoventi corrispondenti al fissato parametro di dieci a uno; cinque di essi, condotti sul luogo dell'eccidio insieme con gli altri trecentotrenta, vennero individuati e collocati in disparte nel piazzale antistante dove furono visti dal ten. Kofler parlare col Kappler; mentre il disertore austriaco Raider, pure condotto sul luogo della rappresaglia, fu ricondotto a via Tasso in considerazione della sua nazionalità.
Il giorno successivo lo Schutz e il Priebke riferirono al Kappler che erano state fucilate cinque persone in più, sostenendo che la lista "Caruso" comprendeva cinquantacinque anziché cinquanta persone; ma ciò non corrispondeva al vero perché, in base al successivo riconoscimento delle salme, il numero dei detenuti a disposizione della polizia italiana risultò esattamente di cinquanta, sì che le cinque persone in più dovevano essere a disposizione del comando tedesco; in quello stesso giorno i giornali italiani pubblicarono il comunicato relativo all'attentato di via Rasella ed alla fucilazione di dieci "comunisti badogliani" per ciascuno dei trentadue soldati tedeschi morti; solo a seguito del successivo dissotterramento si scoprì il reale numero delle persone uccise, trecentotrentacinque anziché trecentoventi.
2.- Nell'immediato dopoguerra, all'esito d'istruttoria sommaria, venne disposto il rinvio a giudizio del ten. col. H. Kappler e degli ufficiali di grado inferiore Domizlaff, Clemens, Quapp, Schutze e Wiedner - pure in servizio presso il medesimo comando militare - per rispondere del reato di concorso in violenza con omicidio continuato in danno di cittadini italiani di cui agli artt. 13 e 185, co. 1° e 2°, c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 112 n. 1, 575, 577, nn. 3 e 4, 61 n. 4 e 5 c.p., e per il Kappler con le ulteriori aggravanti previste dall'art. 112 n. 2 e 3 c.p., "... perché, quali appartenenti alle forze armate tedesche, nemiche dello Stato italiano, in concorso tra loro e con circa 40-50 militari delle SS tedesche, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, senza necessità né giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra e in esecuzione di sanzioni collettive stabilite per un attentato commesso il 23.3.1944 in via Rasella a Roma, cagionavano, mediante colpi d'arma da fuoco esplosi con premeditazione, cinque per volta, alla nuca di ogni vittima, la morte di trecentotrentacinque persone, in grandissima maggioranza cittadini italiani, militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni belliche, e precisamente n. 154 persone a disposizione dell'Aussenkommando sotto inchiesta di polizia, n. 43 persone a disposizione del tribunale militare tedesco - 1 assolta, 23 in attesa di giudizio, 16 condannate a pene detentive temporanee e 3 alla pena di morte -, n. 50 persone a disposizione della questura fermate per motivi politici o di p.s., n. 10 persone arrestate nei pressi di via Rasella, n. 3 persone non identificate e n. 75 ebrei, in Roma località Cave Ardeatine, il 24 marzo 1944".
Il tribunale militare territoriale di Roma, dopo avere ricostruito analiticamente le vicende dell'attentato partigiano di via Rasella del 23 marzo 1944, nel quale rimanevano uccisi 33 soldati tedeschi, e della reazione dell'esercito occupante mediante la citata esecuzione collettiva presso le Cave Ardeatine nel giorno successivo, qualificato illegittimo il ricorso alla "rappresaglia" per l'enorme sproporzione fra le conseguenze dell'attentato e il numero delle vittime, in assenza altresì di necessità bellica o di giustificato motivo, effettuava (quanto alla posizione di vertice gerarchico del Kappler e alla relativa "indagine sul dolo" dell'imputato) una distinzione tra la fucilazione di trecentoventi persone, corrispondenti all'ordine dato dal gen. Maeltzer di uccidere dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso - trentadue al momento dell'ordine -, quella di ulteriori dieci persone, ordinata direttamente dal Kappler dopo essere stato informato del sopravvenuto decesso di un soldato tedesco, e quella infine di altre cinque persone eccedenti l'originaria lista delle vittime, distinzione di cui appare opportuno riportare alcuni passaggi motivazionali.
"... L'ordine di uccidere trecentoventi persone in relazione a trentadue morti, pur essendo illegittimo in quanto quelle fucilazioni costituivano degli omicidi, non può affermarsi con sicura coscienza che tale sia apparso al Kappler...", ovvero che questi "... abbia avuto coscienza e volontà di obbedire a un ordine illegittimo...", in considerazione dello "stato d'animo di solidarietà verso i tedeschi morti", dell'"abito mentale portato all'obbedienza pronta formato nell'organizzazione delle SS dalla disciplina rigidissima", della circostanza che ordini analoghi in precedenza erano stati eseguiti in varie zone d'operazione, della circostanza che il comando, proveniente dal gen. Maeltzer, potesse risalire addirittura a un ordine del Fuehrer.
Piena era invece la responsabilità del Kappler per la fucilazione di altri dieci ebrei - costituenti dieci omicidi volontari continuati - da lui autonomamente disposta dopo avere appreso della sopravvenuta morte di un soldato tedesco senza avere ricevuto alcun ordine in proposito: egli agì "arbitrariamente e illegalmente nell'intento di porre in rilievo la sua personalità come quello di chi adotta pronte, energiche e spregiudicate misure", onde accrescere "il suo prestigio davanti ai capi nazisti", rinvenendosi "la causale nella sfrenata e aberrante ambizione dell'uomo... permeato fino all'esasperazione di nazismo".
La fucilazione delle altre cinque persone, prelevate in più del numero stabilito fra i detenuti a disposizione dei tedeschi, fu dovuta invece ad un "errore", perché "... il cap. Schutz e il cap. Priebke, preposti alla direzione dell'esecuzione e al controllo delle vittime nella frenetica foga di effettuare l'esecuzione con la massima rapidità, non s'accorsero che esse erano estranee alle liste fatte in precedenza ...", sì che "la loro uccisione si riporta alle insufficienti ed inopportune direttive date dal Kappler per un'esecuzione in grande massa e alla straordinaria negligenza di quei due capitani": il Kappler, oltre che dei dieci omicidi volontari suindicati, risponde anche di questi 5 omicidi a titolo di aberratio ictus ex art. 82, co. 2°, c.p.
Il Kappler veniva pertanto condannato, con sentenza di data 20.7.1948, alla pena dell'ergastolo per gli indicati omicidi volontari continuati e pluriaggravati dall'avere agito con crudeltà verso le vittime, con premeditazione e con approfittamento di circostanze minoratrici della privata difesa, nonché ai sensi degli artt. 47 n. 2 e 58 c.p.m.p.
Quanto alla posizione degli altri cinque imputati, che avevano ricevuto ordine dal Kappler di partecipare all'esecuzione collettiva di cittadini italiani conseguente all'attentato partigiano, osservava il tribunale che: taluni, sebbene avessero presenziato alle prime indagini come il Domzilaff e il Clemens, ovvero avessero collaborato nella compilazione delle liste come il Quapp, "non erano a conoscenza di tutti gli elementi di fatto noti al loro superiore e tanto meno del contenuto dei colloqui che questi aveva avuto con le autorità superiori"; altri, come lo Schutze e il Wiedner, "erano stati riuniti qualche ora prima dell'esecuzione e assieme ad altri erano stati condotti alle Cave Ardeatine"; loro "non sapevano che dieci persone venivano fatte fucilare al di fuori dell'ordine ricevuto né intervenivano in quell'attività che doveva determinare per errore la morte di cinque persone".
Tenuto conto dell'appartenenza ad un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, dell'abito mentale portato alla pronta obbedienza, del timore di una denunzia al tribunale militare delle SS, e considerato che questi imputati "erano ignari dell'esatta situazione che portava alla fucilazione mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto spesso erano stati eseguiti in zone d'operazioni", il tribunale riteneva dovesse escludersi che loro "avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo" e, con la medesima sentenza, li assolveva "per avere agito nell'esecuzione di un ordine di un superiore".
Il tribunale supremo militare, pur rettificando la motivazione della prima decisione sulla "rappresaglia" per l'attentato partigiano - nel senso di escluderne in radice la legittimità da parte dell'esercito tedesco occupante -, ne confermava la ricostruzione fattuale della vicenda e le valutazioni, in punto sia di "dubbio circa la coscienza e la volontà dell'imputato di obbedire ad un ordine criminoso per quanto ha tratto alla fucilazione dei trecentoventi" che di responsabilità per l'uccisione delle altre quindici persone; e pertanto, nonostante l'esclusione dell'aggravante della premeditazione per quest'ultimi delitti ("per l'immediata contestualità tra la notizia del decesso del 33° soldato e la deliberazione di aggiungere altre dieci persone all'elenco delle vittime" e, quanto all'uccisione degli altri cinque, per l'esecuzione "commessa in continenti dell'intera strage"), con sentenza in data 25.10.1952, divenuta irrevocabile il 19.12.1953 a seguito di declaratoria d'inammissibilità del ricorso per cassazione, respingeva il ricorso del Kappler.
3.- Herbert Hass e Erich Priebke - maggiore e, rispettivamente, capitano delle SS germaniche - sono stati infine chiamati a rispondere davanti al tribunale militare di Roma del reato di "concorso in violenza con omicidio continuato in danno di cittadini italiani", di cui agli artt. 13 e 185, commi 1° e 2°, c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575, 577 nn. 3 e 4, 61 n. 4 c.p., in concorso con Herbert Kappler ed altri militari tedeschi (alcuni dei quali già giudicati con le summenzionate sentenze), "per avere cagionato la morte di trecentotrentacinque persone, per lo più cittadini italiani, militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni belliche, con premeditata esecuzione a mezzo di colpi d'arma da fuoco, in Roma, loc. Cave Ardeatine, in data 24 marzo 1944 durante lo stato di guerra tra l'Italia e la Germania".
Il tribunale, pur affermando di condividere integralmente la ricostruzione degli eventi riportata nelle decisioni passate in giudicato riguardanti Kappler e gli altri cinque ufficiali del comando tedesco - recepite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. -, ribadita la tesi dell'illegittimità della rappresaglia contro la popolazione civile a seguito dell'attentato partigiano di via Rasella per difetto dei presupposti della proporzionalità e della necessità, escludeva in premessa l'effetto preclusivo della res judicata formatasi in quel diverso giudizio nei confronti degli odierni imputati, pure concorrenti nel medesimo reato, attesa l'autonomia di ciascuna posizione concorsuale e di ciascun rapporto processuale.
Sono stati innanzi tutto identificati i ruoli rispettivamente svolti dall'Hass e dal Priebke all'interno del Comando militare tedesco di Roma (il primo, quale dirigente del 6° reparto delle SS cui era demandato il servizio informazioni politiche col compito di occuparsi dello spionaggio all'estero, con proprio ufficio e relativa autonomia funzionale presso l'Ambasciata germanica; il secondo, alle dirette dipendenze del ten. col. Kappler e del pari grado cap. Schutz nell'ambito del 4° reparto dell'Aussenkommando della polizia politica e del servizio di sicurezza di via Tasso, ufficiale di collegamento con l'Ambasciata germanica, uomo di massima fiducia del Kappler nell'organizzazione romana delle SS, partecipe personalmente ad operazioni di polizia repressiva, arresti, interrogatori, torture di coloro che venivano imprigionati nel carcere tedesco di via Tasso) e nella realizzazione dell'eccidio delle Cave Ardeatine (il Priebke collaborò alla preparazione dell'eccidio, mediante la formazione e la tenuta degli elenchi dei prigionieri, e alla loro uccisione, "in posizione di assoluta preminenza organizzativa", mentre l'Hass venne informato dal Kappler e chiamato a partecipare alla riunione operativa con gli ufficiali la mattina del 24 marzo, presenziò alla fase dell'esecuzione, dall'inizio alla fine, mediante la personale uccisione di almeno due prigionieri per dare l'esempio alla truppa).
Si è poi affermato - secondo una rilettura delle medesime risultanze probatorie del processo Kappler condotta alla luce delle dichiarazioni successivamente rese dal teste Cecconi e dall'imputato Hass (il Kappler gli aveva raccontato la mattina del 25 marzo che per errore erano state portate 335 anziché 330 persone e "poiché cinque persone in più alla fine c'erano, erano state passate per le armi") - che l'uccisione delle cinque persone eccedenti il numero dei trecentotrenta fu posta in essere, al fine di "eliminare testimoni pericolosi" e non "lasciare tracce", con piena consapevolezza, massima del Priebke, affidatario delle liste e preposto dall'inizio alla fine alla chiamata e alla formazione dei gruppi di cinque persone avviate, l'una dopo l'altra, a morte e alla loro cancellazione dalle liste in corrispondenza dei nominativi ivi segnati.
Il tribunale, escluse le cause di giustificazione dell'adempimento di un ordine gerarchico - per il suo contenuto intrinsecamente e manifestamente criminoso - e dello stato di necessità - quantomeno per l'evidente sproporzione fra il pericolo in ipotesi incombente su di essi e il fatto commesso -, dichiarava con sentenza in data 22.7.1997 gli imputati colpevoli di concorso nel delitto di violenza con omicidio continuato e pluriaggravato dalla crudeltà e dalla premeditazione (quest'ultima ascrivibile al solo Priebke, ma estensibile all'Hass a norma dell'art. 118 c.p., applicabile nella formulazione previgente la novella del 1980 in forza del principio di ultrattività della legge penale militare di guerra sancito dall'art. 23 c.p.m.g.).
Ritenute sussistenti per entrambi gli imputati l'attenuante dell'art. 59 n. 1 c.p.m.p. per essere stati determinati dal Kappler, superiore gerarchico, a concorrere nella commissione del reato, e le attenuanti generiche, nonché per il solo Hass anche quella della minima importanza nella partecipazione al reato di cui all'art. 59 n. 2, c.p.m.p., quel giudice escludeva la possibilità di procedere al giudizio di comparazione fra esse (dovendosi apprezzare in quel caso la subvalenza delle attenuanti) ed applicava l'art. 69 co. 4° c.p. nella formulazione previgente la novella del 1974 in forza della citata ultrattività della legge penale di guerra.
Affermata quindi l'imprescrittibilità del reato, siccome astrattamente punibile con la pena dell'ergastolo e configurabile come crimine di guerra contro l'umanità secondo il diritto internazionale , l'Hass veniva condannato alla pena di anni 10 e mesi 8 di reclusione e il Priebke a quella di anni 15 di reclusione, pene parzialmente condonate nella misura di anni 10, oltre al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili e alla rifusione delle relative spese di difesa.
4.- La corte militare d'appello, in accoglimento del gravame della pubblica accusa e in parziale riforma della citata decisione di primo grado, escluse per entrambi gli imputati le attenuanti di cui agli artt. 62-bis c.p. e 59 n. 1 c.p.m.p. e per l'Hass anche quella di cui all'art. 59 n. 2 c.p.m.p., li condannava alla pena dell'ergastolo, oltre la rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, con esclusione delle parcelle presentate da difensori sprovvisti di procura speciale per il giudizio d'appello.
La corte recepiva la narrazione degli eventi contenuta nelle citate decisioni del 1948 e del 1952 con alcune rettificazioni e integrazioni necessitate dal sopravvenire di risultanze probatorie, ad esempio in tema di: ruolo e posizione dei due imputati all'interno dell'organizzazione romana delle SS e modalità di partecipazione di ciascuno di essi alla varie fasi dell'eccidio; formazione e veicolazione dell'ordine ricevuto dal Kappler di fucilare "ostaggi italiani" e "condannati a morte" in numero di dieci a uno, a titolo di rappresaglia per le uccisioni dei soldati tedeschi nell'attentato partigiano di via Rasella, e di autonome determinazioni dello stesso; deliberata e clandestina uccisione di cinque persone in più rispetto alla voluta proporzione di dieci a uno per i motivi indicati dal giudice di primo grado.
Disattendeva quindi la tesi difensiva della preclusione processuale nascente dal giudicato - in parte qua - assolutorio, formatosi nel 1948 nel processo a carico di H. Kappler e di altri cinque ufficiali tedeschi che avevano partecipato all'eccidio delle Cave Ardeatine, nei confronti degli odierni imputati, pure concorrenti nel medesimo reato, in considerazione dell'autonomia di ciascuna posizione concorsuale e dell'inesistenza di situazioni di logica "inconciliabilità dei fatti di base", ricostruiti da entrambi i giudici di merito nell'immediato dopoguerra in termini di oggettiva illiceità, seppure con diversificazione della posizione dei singoli concorrenti "in punto di dolo".
Ribadite l'illegittimità della rappresaglia contro la popolazione civile a seguito dell'attentato partigiano di via Rasella, per difetto dei presupposti della proporzionalità e della necessità di fatto o giuridica, e l'assenza degli estremi delle invocate esimenti - anche sotto il profilo putativo - dell'esecuzione di un ordine vincolante e insindacabile, per la sua manifesta criminosità, e dello stato di necessità, per difetto di minaccia alla vita o all'integrità fisica degli ufficiali delle SS romane in caso di rifiuto di obbedienza all'ordine di uccidere, la corte evidenziava il rilevante e consapevole contributo causale della già descritta attività concorsuale dei due imputati nelle varie fasi della strage.
Ravvisava per entrambi le aggravanti della premeditazione - questa facente capo direttamente anche all'Hass e non al solo Priebke - e della crudeltà, e, disattesa la configurabilità dell'attenuante della determinazione al reato da parte del superiore per l'assenza di una minorata condizione di resistenza psicologica da parte del subordinato, e per l'Hass anche di quella della minima partecipazione al fatto per il primario contributo da lui fornito alla esecuzione collettiva, escludeva altresì il concorso di attenuanti generiche, atteso il peso marginale degli elementi del tempo trascorso dal fatto e dell'età avanzatissima degli imputati rispetto alla "inaudita gravità" e "disumanità" del "barbaro eccidio" di cui essi si resero protagonisti, indice di "ineguagliabile malvagità", anche sotto il profilo della "capacità a delinquere" e della "tendenza criminosa" degli autori.
La comminatoria dell'ergastolo per il reato contestato ostava in radice all'intervento della prescrizione prevista dall'art. 157 c.p. come causa estintiva del reato per il quale sia invece prevista una pena detentiva temporanea.
5.- Avverso detta sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione entrambi gli imputati e il difensore della parte civile Roberto Massari, articolando plurimi motivi di gravame sotto i seguenti profili.
5.1.- Il difensore di Karl Hass, avv. A. Pisani, chiedendo la rimessione del procedimento alle Sezioni Unite di questa Corte "data la complessità e delicatezza delle questioni svolte", ha denunziato: a) il "travisamento dei fatti" circa la ricostruzione degli eventi che seguirono l'attentato di via Rasella, in particolare circa le modalità di formazione dell'ordine di esecuzione della rappresaglia; b) la violazione del disposto dell'art. 630 lett. a) in relazione all'art. 669 c.p.p., e degli artt. 43 e 110 c.p., in ordine alla richiesta declaratoria d'improcedibilità per la preclusione derivante dal giudicato formatosi nel 1948 nei confronti degli altri cinque ufficiali concorrenti nel medesimo reato; c) l'erronea interpretazione degli artt. 40 c.p.m.p., 51 e 59 c.p. e l'illogicità della motivazione sulla prova della rappresentazione da parte dell'imputato dell'illegittimità e manifesta criminosità dell'ordine di eseguire la rappresaglia, valutata in termini dissimili da quanto stabilito con la sentenza assolutoria pronunziata nel 1948 nei confronti degli altri ufficiali del comando delle SS, soprattutto per l'uccisione delle cinque persone in più rispetto al fissato numero delle vittime; d) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione quanto all'esclusione dello stato di necessità scusante in considerazione delle conseguenze che sarebbero derivate in caso di disobbedienza all'ordine; e) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alle ritenute aggravanti della premeditazione e della crudeltà, la prima valutata in modo dissimile da quanto già stabilito a carico del medesimo Kappler; f) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per il diniego delle attenuanti di cui all'art. 59, nn. 1 e 2, c.p.m.p. e delle attenuanti generiche, attese la tardissima età del ricorrente e l'assenza di pregiudizi nel tempo successivo al fatto addebitato, con richiesta di conseguente declaratoria di prescrizione del reato.
5.2.- I difensori di Erich Priebke, avv. G.B. Naso e avv. prof. C. Taormina, hanno dedotto - con autonomi ricorsi -: a) il "travisamento dei fatti" circa la ricostruzione degli eventi, effettuata in termini incompatibili con quanto stabilito con la sentenza pronunziata nel 1948 (di assoluzione dubitativa quanto a 320 uccisioni) nei confronti del Kappler e (di assoluzione piena per tutte le uccisioni) degli altri cinque ufficiali concorrenti nel medesimo reato quanto alla consapevolezza dell'illegittimità dell'ordine di rappresaglia, con conseguente violazione del divieto di bis in idem previsto dall'art. 649 c.p.p. "anche quale strumento preventivo di risoluzione dei conflitti teorici di giudicati", in riferimento sistematico agli artt. 630 lett. a) e 669.8, relativamente alla richiesta declaratoria d'improcedibilità per la preclusione derivante dal giudicato formatosi nel 1948; b) il vizio logico di motivazione e il travisamento dei fatti, in relazione all'art. 192 c.p.p., in ordine alla rivisitazione storico-giudiziaria della formazione e veicolazione dell'ordine di eseguire la rappresaglia e alla prova dell'attribuibilità all'imputato di una potestà decisoria e di una condotta autonoma avente incidenza causale nella produzione dell'evento, sia nella fase preparatoria della predisposizione e tenuta delle liste che nella fase esecutiva dell'eccidio, soprattutto per l'uccisione delle cinque persone in più rispetto alla deliberata proporzione; c) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'esimente prevista, soprattutto per il profilo putativo, dagli artt. 40 c.p.m.p., 51 e 59 c.p., in ordine alla prova della rappresentazione da parte dell'imputato dell'illegittimità e manifesta criminosità dell'ordine di eseguire la rappresaglia; d) la violazione di legge e il vizio motivazionale quanto all'esclusione dello stato di necessità quanto meno putativo, scusante in considerazione delle conseguenze che sarebbero derivate in caso di disobbedienza all'ordine; e) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alle ritenute aggravanti della premeditazione e della crudeltà verso le persone; f) la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per il diniego delle circostanze attenuanti di cui all'art. 59 n. 1 c.p.m.p. e delle attenuanti generiche, attese l'avanzatissima età del ricorrente e il trascorrere del tempo dal fatto addebitato senza la commissione di ulteriori reati.
5.3.- Ha proposto altresì ricorso per cassazione l'avv. P.A. Sodani, difensore della parte civile Roberto Massari, deducendo la violazione degli artt. 100, comma 3, e 541 c.p.p. in punto di rifusione delle spese del giudizio d'appello, denegata da quel giudice sull'erroneo presupposto della mancanza di specifica procura speciale per la fase di gravame, poiché l'originaria procura era stata rilasciata dall'interessato al difensore per l'intero "procedimento" e non solo per il primo grado di giudizio.
DIRITTO
Il difensore di Karl Hass, avv. A. Pisani, ha chiesto che il procedimento "data la complessità e la delicatezza delle questioni svolte" sia devoluto, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., alle Sezioni Unite di questa Corte.
Il Collegio non ritiene di dover rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite poiché le questioni di diritto sottoposte al suo esame possono essere decise sulla base delle ragioni che si esporranno qui di seguito.
I) Sulla preclusione derivante dal giudicato penale.
1. Dev'essere esaminato per primo, in ordine logico, il motivo di gravame con il quale i difensori degli imputati hanno denunziato il "travisamento dei fatti" nella ricostruzione degli eventi di cui è causa, che sarebbe stata effettuata dal giudice di merito in termini incompatibili con quanto stabilito con la sentenza pronunziata il 20 luglio 1948 (di assoluzione dubitativa quanto a 320 uccisioni) nei confronti del Kappler e (di assoluzione piena per tutte le uccisioni) degli altri cinque ufficiali del comando romano delle SS, gerarchicamente subordinati e concorrenti nel medesimo reato - in particolare, quanto alla consapevolezza dell'illegittimità e criminosità dell'ordine di rappresaglia -, nonché la conseguente violazione da parte di quel giudice del divieto di bis in idem previsto dall'art. 649 c.p.p.
Disposizione quest'ultima che, nella prospettazione difensiva, funzionerebbe "anche quale strumento preventivo di risoluzione dei conflitti teorici tra giudicati", mediante la declaratoria d'improcedibilità per la preclusione derivante dal giudicato, e che sarebbe da interpretare sistematicamente in relazione alla disciplina predisposta dagli artt. 630.1 lett. a) e 669.8 c.p.p., sulla revisione della sentenza irrevocabile di condanna "se i fatti stabiliti a fondamento non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile" e, rispettivamente, sui poteri del giudice dell'esecuzione in caso di pluralità di sentenze irrevocabili, una di condanna e l'altra di proscioglimento, pronunciate per il medesimo fatto.
Ritiene il Collegio che la censura sia destituita di fondamento giuridico.
2. L'operatività della garanzia del divieto di bis in idem impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona e per lo stesso fatto sul quale si è formato il giudicato penale: se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento, a seconda della fase in cui la causa preclusiva è rilevata.
Il valore della "cosa giudicata penale", risolvendosi nella regola, di natura strettamente processuale ed a contenuto negativo, del divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.; v. l'art. 90 c.p.p. 1930), esplica una funzione di garanzia per la persona imputata e ne postula l'identità con il soggetto già irrevocabilmente condannato o prosciolto.
Di talché, la preclusione derivante dal giudicato penale nei confronti di un determinato imputato per un certo fatto - giusta l'indirizzo giurisprudenziale assolutamente dominante (Cass., sez. V, 31.10.1995, Gavinelli, rv. 203379; sez. I, 29.9.1995, Bernocchi, in Riv. pen., 1996, 486; sez. IV, 14.4.1988, Zuccari, rv. 179259; sez. VI, 25.3.1986, De Martino, in Cass. pen., 1987, 1201) - non esplica alcuna efficacia vincolante nei confronti dei coimputati per i quali si sia proceduto separatamente, neppure se concorrenti nello stesso reato, a cagione dell'autonomia dei singoli rapporti processuali concernenti ciascun imputato, con la conseguente possibilità di una diversa valutazione dello stesso fatto da parte di più giudici, dandosi esclusivamente luogo ad un'ipotesi di revisione della sentenza di condanna in caso d'inconciliabilità dei "fatti stabiliti a fondamento" della stessa rispetto a quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile a norma dell'art. 630.1 lett. a) c.p.p.
Che la disciplina sistematica della prevenzione del conflitto teorico fra giudicati, ispirata al generale principio del favor rei, sia per ciò stesso legata al presupposto di identità del soggetto imputato, trova conferma nella circostanza che anche le altre norme di chiusura, poste dall'ordinamento a rimedio della situazione determinata dal mancato funzionamento della preclusione di un secondo giudizio e ispirate anch'esse, oltre che alla funzione di garanzia del ne bis in idem, al principio del favor rei, presuppongono l'identità (non solo del fatto, ma altresì) della persona.
- Gli artt. 620.1 lett. h) e 621 c.p.p. (v. gli artt. 539 n. 7 e 540 c.p.p. 1930) prescrivono che la Corte di cassazione pronunci sentenza di annullamento senza rinvio "se vi è contraddizione tra la sentenza impugnata e un'altra anteriore concernente la stessa persona e il medesimo oggetto, pronunciata dallo stesso o da altro giudice penale", ordinando l'esecuzione della prima sentenza, e, se si tratta di una sentenza di condanna, di quella che ha inflitto la condanna meno grave determinata a norma dell'art. 669 (avvertendosi in giurisprudenza che, a fortiori, in caso di sentenza definitiva anteriore di condanna e di sentenza posteriore di proscioglimento, per mere ragioni di equità e superandosi il criterio dell'intangibilità del giudicato e quello conseguente della prevenzione dei giudizi, vanno ordinati l'esecuzione della seconda e l'annullamento della prima, ovvero che, qualora la sentenza anteriore a quella divenuta definitiva sia ancora soggetta ad impugnazione e sia più favorevole all'imputato, per il prevalere del criterio del favor rei, si annulla quella posteriore, essendosi in presenza di una lacuna della legge che va colmata avendo presenti le scelte operate dal legislatore sia in sede di cognizione che in sede di esecuzione: Cass., sez. I, 4.5.1984, Pratelli, rv. 164685-688).
- L'art. 669 c.p.p. (v. l'art. 579 del previgente codice di rito) detta per il giudice dell'esecuzione le regole per stabilire quale sia la decisione da eseguire - e quella da revocare - nel caso in cui siano state emesse irrevocabilmente più sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona, ancora una volta ribadendo, anche in executivis, la regola della prevalenza della condanna meno grave fra più sentenze di condanna o del proscioglimento - comma 8° - fra più sentenze, una di condanna e l'altra di proscioglimento (Cass., sez. II, 18.2.1992, Viriglio, rv. 189347).
- L'art. 733 lett. f) c.p.p. preclude infine il riconoscimento della sentenza straniera quando per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata nello Stato italiano sentenza irrevocabile.
Nulla autorizza dunque a ritenere che tale coerente disciplina normativa, peculiare espressione del ne bis in idem ed allo stesso tempo del favor rei, sia suscettibile di applicazione analogica nei confronti di imputati diversi, sia pure concorrenti nel medesimo fatto-reato per il quale si sia già formato il giudicato a carico di altro imputato: a prescindere da ogni confusione concettuale fra fenomeni distinti, il richiamo all'analogia maschererebbe, in tal caso, un'inammissibile e asistematica adesione alla teoria dell'efficacia esterna e riflessa del giudicato penale nel processo penale.
Ritiene pertanto il Collegio che l'ipotizzato conflitto teorico di giudicati non sia prevenibile in radice tramite la richiesta declaratoria d'improcedibilità, fondata in via analogica sull'art. 649 c.p.p., nell'interpretazione letterale e sistematica di tale norma in riferimento alle correlate disposizioni degli artt. 620.1 lett. h), 621, 669 e 733 lett. f) stesso codice di rito.
3. Che l'ordinamento processuale non garantisca affatto alla res judicata penale né pregiudizialità vincolante, né stabilità decisoria esterna o erga omnes trova solida conferma nella disposizione dell'art. 238-bis c.p.p., recentemente inserita dall'art. 3.2 d.l. 306/92 conv. in l. 356/92 nel capo VII sui "documenti" del titolo II dedicato ai "mezzi di prova", che così recita: "Fermo quanto previsto dall'art. 236, le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192 comma 3".
Si è affermato in giurisprudenza che la ratio della norma è quella di non disperdere elementi conoscitivi acquisiti in provvedimenti che hanno acquistato autorità di cosa giudicata, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice (Cass., sez. II, 19.5.1994, Rapanà, rv. 198107), nel senso che l'utilizzazione ai fini del decidere di risultanze di fatto emergenti anche dalla motivazione, e non dal solo dispositivo, delle sentenze divenute irrevocabili acquisite ex art. 238-bis, per il richiamo agli art. 187 e 192.3, implica innanzi tutto l'accertamento della rilevanza di dette risultanze in relazione all'oggetto della prova e poi una verifica in ordine alla sussistenza o meno degli indispensabili elementi esterni di riscontro individualizzanti, di qualsiasi natura, da acquisire nel contraddittorio delle parti, che ne confermino la valenza di elemento di prova, per legge non autosufficiente (Cass., sez. I, 20.5.1997, Bottaro, rv. 207930; 25.5.1995, Ronch, rv. 202624).
Nemmeno per questa via è dunque riconosciuta dall'ordinamento processuale portata vincolante alla sentenza divenuta irrevocabile, prodotta quale mezzo di prova documentale ed acquisita al fascicolo del dibattimento: la critica utilizzazione della complessiva piattaforma probatoria è imposta, infatti, dalla regola per cui la prova del "fatto" in essa accertato - per tale intendendosi ogni elemento fattuale, ossia non valutativo, in essa ritenuto per avvenuto ovvero negato nella sua fenomenica esistenza, che abbia concorso con il suo accertamento giudiziale a fondare il convincimento del giudice e la pronuncia conclusiva - dev'essere apprezzata insieme con gli "altri elementi di prova", acquisiti ex novo, "che ne confermino l'attendibilità".
Anche la norma dell'art. 238-bis, pur riflettendo una concreta esigenza di coordinamento probatorio fra processi e di raccordo fra distinte realtà processuali, al pari dello strumento pure attinente alla circolazione della prova offerto dall'art. 238 per i verbali di prove di altro procedimento, presuppone l'autonomia delle valutazioni giudiziali.
Sembra invero non convincente, sotto il profilo teorico e dogmatico, l'idea di un peculiare carattere di prova legale dei fatti enunciati nelle premesse di una sentenza irrevocabile, idonea a costituire, in veste di documento, fonte vincolante di convincimento del giudice e a tenere luogo della diretta formazione e valutazione delle prove in una diversa sede processuale.
Comunque si vogliano intendere le indissolubili e reciproche interazioni fra "fatto" e "valore" contenute nella sentenza penale irrevocabile, correttamente introdotta negli atti processuali mediante lo strumento dell'art. 238-bis, l'acquisizione di siffatto "elemento di prova" non comporta giammai per il giudice di merito automatismi di sorta nel recepimento e nell'utilizzazione ai fini decisori dei "fatti" (né tantomeno dei "giudizi di fatto" e delle soluzioni di una quaestio facti contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione) accertati dal giudice a quo, in forza di un'impropria situazione di pregiudizialità rispetto al dictum e di un'inammissibile efficacia erga omnes del giudicato penale, attesa la persistente autonomia e libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio riservate in via esclusiva al giudice ad quem.
4. Si conferma pertanto (anche alla luce della delineata interpretazione circa il valore e i limiti di strumento probatorio della sentenza penale irrevocabile in quel profilo di diritto positivo - l'art. 238-bis c.p.p. - sicuramente di più avanzata rilevanza esterna dell'accertamento irrevocabile) la fondatezza del consolidato principio giurisprudenziale per il quale il giudicato penale formatosi nei confronti di un determinato imputato per un certo fatto non vincola il giudice chiamato a rivalutare quest'ultimo in relazione alla posizione di altri imputati, concorrenti nel medesimo reato; ed anzi, in caso di assoluzione con sentenza irrevocabile di un imputato, il giudice del separato procedimento a carico di altro imputato, concorrente nel medesimo reato, può rivalutare il comportamento dell'assolto all'unico fine, fermo il divieto del bis in idem a tutela del soggetto nei cui confronti si è esaurita l'azione penale, di accertare la sussistenza o il grado di responsabilità dell'imputato sottoposto al suo giudizio.
Ed è stata proprio questa l'operazione ermeneutica condotta dal giudice di merito nella fattispecie in esame.
Il tribunale militare prima e la corte militare d'appello poi, pur affermando di condividere sostanzialmente la ricostruzione e la narrazione degli eventi storici di base, riportata nelle citate decisioni irrevocabili del 1948 e del 1952 riguardanti Kappler e gli altri cinque ufficiali del comando tedesco - recepite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. -, hanno correttamente proceduto all'autonoma rilettura dei medesimi, incontroversi, dati fattuali e in pari tempo a quelle rettificazioni e integrazioni necessitate dal sopravvenire di ulteriori e specifiche risultanze probatorie, orali e documentali, acquisite nel giudizio ad quem con il crisma dell'oralità e dell'immediatezza, dandone congrua spiegazione nel discorso giustificativo dell'affermazione di responsabilità degli odierni imputati.
Ad esempio: in tema di ruolo e posizione dei due imputati all'interno dell'organizzazione romana delle SS e modalità di partecipazione di ciascuno di essi alla varie fasi dell'eccidio; di formazione e veicolazione dell'ordine ricevuto dal Kappler di fucilare "ostaggi italiani" e "condannati a morte" in numero di dieci a uno, a titolo di rappresaglia per le uccisioni dei soldati tedeschi nell'attentato partigiano di via Rasella, e di autonome determinazioni dello stesso Kappler (a prescindere dalla superfluità del mero argomentare "storiografico" in ordine alla posizione, ormai preclusa, di questo imputato rispetto alle posizioni degli odierni coimputati); di deliberata e clandestina uccisione di cinque persone in più rispetto alla voluta proporzione di dieci a uno, al fine di "eliminare testimoni pericolosi" e non "lasciare tracce".
5. Che anzi, il giudice di secondo grado, disatteso l'assunto del primo giudice di un'assoluta irrilevanza probatoria delle pregresse irrevocabili statuizioni in ordine all'accertamento a lui demandato, si è deliberatamente posto nell'ottica della prevenzione di futuri conflitti teorici di giudicati e della coerenza logica tra essi, riconoscendo come ispirato al principio del favor rei, oltre che a quello di economia processuale, il rimedio predisposto contro l'ingiustizia di una sentenza dalla disciplina della revisione di cui all'art. 630.1 lett. a) c.p.p. (v. l'art. 554 lett. a) c.p.p. 1930).
La corte militare d'appello si è fatta carico di spiegare le ragioni per le quali non era neppure astrattamente ipotizzabile una situazione di conflitto, teorico e futuro, di giudicati che rendesse la decisione inutiliter data per incompatibilità o "inconciliabilità dei fatti di base" inerenti all'eccidio delle Cave Ardeatine, osservando, con un ragionamento di esemplare linearità logico-giuridica, che la formula assolutoria (parzialmente per Kappler e totalmente per gli altri cinque imputati) della sentenza del 1948 trovava linfa e fondamento in una "indagine sul dolo" degli autori di un fatto-reato apprezzato comunque nella sua oggettiva illiceità: in particolare, sulla consapevolezza dell'illegittimità e criminosità dell'ordine di rappresaglia, qualificata per il Kappler in termini di dubbio di rappresentazione quanto all'uccisione di trecentoventi prigionieri e di errore o aberratio delicti quanto all'uccisione delle cinque persone in più, nonché in termini di sicuro difetto di rappresentazione per gli altri coimputati, ufficiali al primo gerarchicamente subordinati.
Mette conto altresì di osservare che l'esenzione da pena riconosciuta agli esecutori di ordini illegittimi, subordinatamente al verificarsi di certi presupposti, "non discrimina il fatto in sé" (Corte cost., sent. 6.7.1972 n. 123), perché, da un lato, il superiore che ha dato l'ordine risponde sempre del reato e, dall'altro, anche la concorrente responsabilità dell'esecutore è affermata o esclusa in presenza di talune "situazioni speciali" disciplinate - come appresso si dirà più diffusamente - dagli artt. 40 c.p.m.p. e 51 c.p.: trattasi invero di circostanza di esclusione della pena di natura personale e soggettiva, per ciò stesso priva di efficacia, a norma dell'art. 119 c.p., per tutti coloro che sono concorsi nel reato.
Orbene, appare evidente l'impossibilità di prospettare in termini di inconciliabilità dei fatti di base ex art. 630.1 lett. a) c.p.p. le differenti operazioni valutative condotte da più giudici circa la definizione delle singole condotte, degli spazi delle rispettive potestà decisorie e dei profili di colpevolezza di ciascun concorrente nella realizzazione del medesimo reato, pure ricostruito nel suo essenziale nucleo storico - l'attentato partigiano di via Rasella, la reazione del comando tedesco, l'ordine di uccisione in proporzione di dieci a uno, la formazione e tenuta delle liste delle vittime, le modalità esecutive dell'eccidio delle Cave Ardeatine, la presenza di persone in numero eccedente quello prefissato ecc. - in termini fattualmente identici e addirittura perfettamente sovrapponibili.
S'intende cioè affermare il principio per il quale la sentenza irrevocabile di proscioglimento di alcuni imputati è irrilevante nel giudizio successivamente instaurato a carico di un diverso imputato al quale sia contestato il concorso nel medesimo fatto, nell'ipotesi - come quella in esame - in cui il proscioglimento dei primi sia stato esplicitamente motivato dal giudice alla stregua di "un'indagine sul dolo", circa l'esatta rappresentazione e consapevolezza da parte di ciascuno di loro dei connotati d'illegittimità e criminosità dell'ordine formulato dal superiore gerarchico, mentre il fatto storico accertato risulti comunque oggettivamente illecito.
In questo caso, non inerendo l'inconciliabilità agli elementi storici adottati per la ricostruzione dei fatti di reato e posti a fondamento delle due diverse decisioni, non è dato postulare quella contraddittorietà dei fatti di base, essenziali o costitutivi, che potrebbe preludere al conflitto teorico di giudicati ed alla revisione di cui all'art. 630.1 lett. a) del codice di rito (giurisprudenza consolidata: cfr., ex plurimis, Cass., sez. VI, 24.10.1997, Gentilini, rv. 208834; sez. V, 9.7.1997, Garrone, rv. 208608; sez. III, 3.11.1994, Masi, rv. 200729; sez. I, 30.11.1992, Agnese, rv. 194797; sez. I, 12.6.1986, Amboni, in Riv. pen., 1987, 508).
II) Sulla manifesta criminosità dell'ordine e sullo stato di necessità (artt. 40 c.p.m.p. e 54 c.p.).
1. I giudici di merito, dopo avere analiticamente descritto gli specifici ruoli rivestiti, i compiti assolti e i contributi dati da ciascuno dei coimputati, nel contesto della complessa attività concorsuale finalizzata alla realizzazione dell'efferato eccidio delle Cave Ardeatine da parte dell'intero apparato organizzativo del comando romano delle SS, hanno argomentato, con puntuale riferimento alle risultanze probatorie, l'ascrivibilità agli stessi dell'effettivo e ininterrotto "dominio finalistico" o "signoria del fatto", mediante un'autonoma e consapevole condotta di partecipazione alle varie fasi di preparazione e di esecuzione, avente obiettiva e rilevante incidenza causale nella produzione dei plurimi eventi di morte.
Sono stati innanzi tutto identificati i ruoli rispettivamente ricoperti dall'Hass e dal Priebke all'interno del comando militare tedesco di Roma (il primo, quale dirigente del 6° reparto delle SS cui era demandato il servizio di informazioni politiche col compito di occuparsi dello spionaggio all'estero, con proprio ufficio e relativa autonomia funzionale presso l'ambasciata germanica; il secondo, alle dirette dipendenze del ten. col. Kappler e del parigrado cap. Schutz nell'ambito del 4° reparto dell'Aussenkommando della polizia politica e del servizio di sicurezza di via Tasso, ufficiale di collegamento con l'ambasciata germanica, uomo di massima fiducia del Kappler nell'organizzazione romana delle SS, diretto partecipe di operazioni di polizia repressiva, arresti, interrogatori, torture di coloro che venivano imprigionati nel carcere tedesco di via Tasso) e nella realizzazione dell'eccidio delle Cave Ardeatine (il Priebke collaborò alla preparazione dell'esecuzione collettiva, mediante la formazione e la tenuta degli elenchi dei prigionieri, e al coordinamento della dinamica della loro uccisione, "in posizione di assoluta preminenza organizzativa"; l'Hass venne informato dal Kappler e chiamato a partecipare alla riunione operativa con gli ufficiali la mattina del 24 marzo, presenziò alla fase dell'esecuzione, dall'inizio alla fine, mediante la personale uccisione di almeno due prigionieri per dare l'esempio alla truppa).
Il giudice di merito ha quindi affermato - secondo una rilettura delle medesime risultanze probatorie del primo processo, condotta alla luce delle dichiarazioni successivamente rese dal teste Cecconi e dall'imputato Hass (il Kappler gli aveva raccontato la mattina del 25 marzo che per errore erano state portate cinque persone in più rispetto alle trecentotrenta, individuate e collocate in disparte rispetto agli altri prigionieri, e "poiché cinque persone in più alla fine c'erano, erano state passate per le armi", dietro suo ordine) - che anche l'uccisione delle cinque persone eccedenti il numero dei trecentotrenta fu posta in essere, al fine di "eliminare testimoni pericolosi" e non "lasciare tracce", con piena consapevolezza, massima del Priebke, affidatario delle liste e preposto dall'inizio alla fine alla chiamata e alla formazione dei gruppi di cinque persone avviate, l'una dopo l'altra, a morte e alla loro cancellazione dalle liste in corrispondenza dei nominativi ivi segnati.
Si è sottolineato inoltre da parte dello stesso giudice come i due ufficiali, mediante la partecipazione alle riunioni preparatorie e la costante presenza sul luogo della strage, accompagnata dalla diretta e programmata uccisione da parte di ciascuno di essi di almeno due persone a fini di esemplarità per la truppa, avessero realizzato, nell'ambito del concordato progetto criminoso, un contributo concorsuale significativo, determinante, rafforzativo e di sicura agevolazione per tutte le altre uccisioni, sia per quelle prestabilite in numero di trecentotrenta che per quelle eccedenti in numero di cinque, le quali "seppure non programmate rientravano nella logica dell'azione rapida e clandestina destinata a rimanere tale".
Ciò posto, rileva il Collegio che i punti di censura relativi al preteso "travisamento del fatto" - in ordine all'asserita rivisitazione storico-giudiziaria della formazione e veicolazione dell'ordine di eseguire la rappresaglia e alla prova dell'attribuibilità a ciascuno degli imputati di una potestà decisoria e di una condotta autonoma causalmente rilevante, sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva dell'eccidio, soprattutto per l'uccisione delle cinque persone in più rispetto alla deliberata proporzione - si limitano, ancorché sotto la specie del vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, allo svolgimento di una serie di deduzioni di mero fatto, tutte concernenti circostanze già esaurientemente vagliate e analizzate nei precedenti gradi di giudizio e disattese con argomentazioni non più rivalutabili nella presente sede di legittimità, in quanto riservate ai giudici competenti per il merito ed immuni altresì da vizi logico-giuridici di sorta.
2. Di indubbio rilievo in questa sede sono invece i comuni - e strettamente correlati - motivi di gravame, con i quali i difensori degli imputati denunziano violazione di legge con riferimento alla esimente prevista, quanto meno sotto il profilo putativo, dagli artt. 40 c.p.m.p., 51 e 59 c.p., e manifesta illogicità della motivazione sulla prova della rappresentazione da parte degli imputati dell'illegittimità e criminosità dell'ordine di eseguire la rappresaglia - mediante l'uccisione di un numero di prigionieri in proporzione di uno a dieci rispetto ai soldati tedeschi morti a seguito dell'attentato partigiano -, nonché vizio motivazionale quanto all'esclusione dello stato di necessità, almeno putativo, scusante in considerazione delle conseguenze che sarebbero derivate in caso di disobbedienza all'ordine.
2.1. La tesi difensiva per la quale il fatto costituente reato ex art. 185 c.p.m.g. sarebbe stato commesso nell'adempimento di un dovere di obbedienza all'ordine emanato - all'ultimo anello della catena gerarchica del meccanismo ordinatorio (Hitler, m.llo Kesserling, gen. von Mackensen, gen. Maeltzer, ten. col. Kappler) - dal Kappler, ufficiale delle SS in posizione gerarchica sovraordinata, è destituita di fondamento giuridico.
Il tribunale militare territoriale di Roma, con la sentenza di data 20.7.1948, s'era pronunziato per la non colpevolezza del Kappler per l'uccisione di trecentoventi prigionieri poiché "l'ordine di uccidere trecentoventi persone in relazione a trentadue morti, pur essendo illegittimo in quanto quelle fucilazioni costituivano degli omicidi, non può affermarsi con sicura coscienza che tale sia apparso al Kappler" e che questi "abbia avuto coscienza e volontà di obbedire a un ordine illegittimo", in considerazione dello "stato d'animo di solidarietà verso i tedeschi morti", dell'"abito mentale portato all'obbedienza pronta formato nell'organizzazione delle SS dalla disciplina rigidissima", della circostanza che ordini analoghi in precedenza erano stati eseguiti in varie zone d'operazione, della circostanza che il comando, proveniente dal gen. Maeltzer, potesse risalire addirittura a un ordine del Fuehrer.
Quanto all'assoluzione, "per avere agito nell'esecuzione di un ordine di un superiore", degli altri cinque imputati, ufficiali e sottufficiali, che avevano ricevuto ordine dal Kappler di partecipare all'esecuzione collettiva, si era affermato che essi "non erano a conoscenza di tutti gli elementi di fatto noti al loro superiore e tanto meno del contenuto dei colloqui che questi aveva avuto con le autorità superiori", "erano stati riuniti qualche ora prima dell'esecuzione e assieme ad altri erano stati condotti alle Cave Ardeatine"; di guisa che, tenuto conto dell'appartenenza ad un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, dell'abito mentale portato alla pronta obbedienza, del timore di una denunzia al tribunale militare delle SS, e considerato che questi imputati "erano ignari dell'esatta situazione che portava alla fucilazione mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto spesso erano stati eseguiti in zone d'operazioni", doveva escludersi che "avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo".
I giudici di merito nell'odierno processo a carico dell'Hass e del Priebke, rovesciando l'impostazione concettuale della sentenza del 1948 e disattendendo la tesi del difetto da parte degli imputati della "coscienza e volontà" di dare esecuzione a un ordine superiore criminoso, oltre a sottolinearne gli oggettivi aspetti di manifesta criminosità, hanno evidenziato, anche sotto il profilo soggettivo, la piena consapevolezza da parte degli imputati della manifesta criminosità dell'ordine e addirittura l'"adesione psicologica" - "per ideologia o abito mentale o per calcolo di convenienza" - al medesimo, eseguito "con la massima disponibilità e prontezza, senza che mai il dubbio o gli imperativi della coscienza minassero l'una o l'altra".
Mette conto di osservare che alla fattispecie omicidiaria di cui è causa deve ritenersi tuttora applicabile la disciplina di settore dell'art. 40 c.p.m.p. - norma di natura sostanziale abrogata dall'art. 22 l. 11.7.1978 n. 382, ma più favorevole in considerazione della più ristretta efficacia dell'esimente generale di cui all'art. 51 c.p. -, secondo cui per i reati militari, se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore, di esso risponde, oltre colui che lo ha dato (terzo comma), anche il militare che ha eseguito l'ordine "quando l'esecuzione di questo costituisce manifestamente reato" (quarto comma).
Il limite di esigibilità del dovere di disobbedienza costituito dalla manifesta criminosità dell'ordine emanato dal superiore gerarchico (quanto ai vigenti ordinamenti di settore, cfr. per i militari l'art. 4, comma 5°, l. 382/78 cit. e l'art. 25, comma 2°, d.p.r. 545/86, nonché per le forze di polizia l'art. 66, comma 4°, l. 121/81), che esercita la funzione di criterio rivolto all'accertamento e al giudizio di colpevolezza dell'imputato, è stato costantemente interpretato in senso "oggettivo" dalla giurisprudenza di legittimità, sia pure con riguardo alla norma fondamentale di riferimento per il tema della sindacabilità e non vincolatività dell'ordine illegittimo nell'ordinamento penale comune, cioè all'art. 51, quarto comma , c.p.
Deve trattarsi di ordine che abbia per contenuto un fatto "indiscutibilmente" delittuoso "secondo un generale apprezzamento", o "secondo l'apprezzamento di chiunque", ovvero "secondo un comune apprezzamento" (Cass., sez. VI, 28.9.1984, Sciotti, rv. 167316; sez. V, 21.4.1983, Rognato, rv. 161100; sez. V, 9.4.1969, Pautassi, rv. 117718; sez. IV, 5.2.1968, Gagliati, rv. 108431; sez. V, 27.11.1967, Gandolfi, rv. 106697; sez. VI, 22.6.1967, Ballerini, rv. 105407; sez. IV, 1.3.1967, Carosi, rv. 104928).
Si aggiunge anzi che il palese carattere delittuoso della condotta ordinata, nel comportare la sindacabilità dell'ordine impartito, ne esclude l'efficacia esimente non solo sotto il profilo obiettivo ma anche sotto quello putativo (Cass., sez. V, 28.5.1984, Guerrieri, rv. 165855; sez. VI, 11.1.1974, Sarti, rv. 126701).
Anche l'insindacabilità e la vincolatività dell'ordine, proprie del sistema gerarchico militare, trovano dunque un limite razionale nell'intrinseco, oggettivo ed evidente contenuto criminoso dell'ordine superiore, per ciò stesso percepibile sempre e comunque dal subordinato, il cui dovere di attenzione e di vigilanza viene così richiamato ai fini del prescritto rifiuto di obbedienza.
Se il comportamento ordinato risulta indiscutibilmente, macroscopicamente e immediatamente criminoso nell'opinione comune radicata nel tipo medio di persona, ancorché posta nella specifica situazione di fatto dell'agente subordinato, non potrà giammai essere invocata da parte dell'esecutore l'inconsapevolezza o la non percepibilità della delittuosità del fatto come causa di esclusione della responsabilità e della pena: che si è già detto essere, comunque, di natura personale e soggettiva (perché "la norma non discrimina il fatto in sé": Corte cost., n. 123/72 cit.), per ciò stesso non estensibile a tutti coloro che sono concorsi nel reato a norma dell'art. 119 c.p.
Ex adverso, in tal senso integrandosi entrambi i parametri, oggettivo e soggettivo, d'identificazione del limite, il ricorso al criterio oggettivo diventa superfluo qualora sia acquisita la certezza probatoria dell'effettiva consapevolezza e rappresentazione del contenuto criminoso dell'atto da parte dell'autore materiale, a causa delle particolari conoscenze che egli abbia della concreta situazione di fatto (in questi termini si esprimeva anche la Relazione al Re sul testo definitivo dei codici penali militari del 1941).
Nella fattispecie in esame l'ordine superiore concerneva il compimento di una feroce rappresaglia nei confronti di trecentotrentacinque persone, in grandissima maggioranza cittadini italiani, militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni belliche: precisamente, n. 154 a disposizione dell'Aussenkommando sotto inchiesta di polizia, n. 43 a disposizione del tribunale militare tedesco - 1 assolta, 23 in attesa di giudizio, 16 condannate a pene detentive temporanee e 3 alla pena di morte -, n. 50 a disposizione della questura fermate per motivi politici o di p.s., n. 10 arrestate nei pressi di via Rasella, n. 3 non identificate e n. 75 ebrei detenuti a seguito di precedenti rastrellamenti e in attesa di avviamento ai campi di concentramento.
Ebbene, ritiene il Collegio che un ordine siffatto, siccome avente ad oggetto l'esecuzione di un barbaro eccidio in danno di prigionieri inermi, in violazione sia del diritto bellico che dei più elementari principi umanitari dello ius gentium (nel pur inadeguato quadro normativo di riferimento vigente all'epoca dei tragici eventi, attesa l'irretroattività delle regole essenziali ed inderogabili del diritto umanitario bellico, recepite solo successivamente dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 12.8.1949 e dai due Protocolli addizionali dell'8.6.1977, ratificati dallo Stato italiano rispettivamente con l. 27.10.1951 n. 1739 e l. 11.12.1985 n. 762, e di quelle sul genocidio di cui agli artt. 1, comma 2°, e 3 l. 9.10.1967 n. 962), recava intrinsecamente ed ontologicamente, per la cinica selezione e sproporzione del numero delle vittime rispetto ai soldati tedeschi morti in conseguenza dell'attentato partigiano e per le efferate modalità di esecuzione collettiva delle uccisioni, le stimmate della manifesta, macroscopica, clamorosa e ictu oculi riconoscibile criminosità dello sterminio di massa.
Di talché, agli ufficiali destinatari di quell'ordine, obiettivamente connotato dall'incommensurabile ed incontrovertibile disvalore proprio di un orribile delitto contro l'umanità, non era consentito spazio alcuno per dubbi o incertezze interpretative e s'imponeva (pena l'accusa di concorso nell'esecuzione del disumano ordine, che la coscienza collettiva e ogni legislatore escludono categoricamente dal novero delle cause di giustificazione) il dovere di disobbedienza gerarchica.
I convincimenti ideologici, di natura politico-militare, religiosa o razziale, e gli atteggiamenti psicologici d'indifferenza o addirittura di adesione alla manifesta criminosità dell'ordine superiore, lungi dal giustificare i comportamenti delittuosi dei subordinati, costituivano anzi segnali inequivocabili e certi della cosciente rappresentazione da parte dell'agente del carattere palesemente delittuoso dell'azione imposta.
Appare perciò vano dedurre l'erronea opinione di legittimità dell'ordine superiore derivata da particolari circostanze materiali (quali l'appartenenza ad un'organizzazione militare, quella delle SS, dalla disciplina gerarchica rigidissima, l'abito mentale portato alla pronta obbedienza, il timore di una denunzia al tribunale militare delle SS e l'autorevole genesi dell'ordine), sotto il profilo della c.d. putatività dell'esimente, poiché il giudice di merito, con puntuale riferimento ai dati fattuali e con argomentazioni prive di salti logici, incensurabili in sede di legittimità, ha adeguatamente evidenziato come entrambi gli imputati fossero perfettamente a conoscenza della esatta situazione relativa alla esecuzione della rappresaglia nelle varie fasi, succedutesi in un sufficientemente ampio arco temporale, della formazione delle liste, della selezione dei prigionieri e dell'attuazione del progettato eccidio di massa.
2.2. Parimenti infondata appare, d'altra parte, l'evocazione difensiva di un preteso stato di necessità nell'esecuzione dell'ordine criminoso.
Osserva il Collegio, in linea di diritto, che un limite ulteriore alla fisiologica applicazione del principio di responsabilità conseguente all'esecuzione di un ordine intrinsecamente delittuoso, rispetto al già indicato limite della manifesta criminosità, è dato indubbiamente dallo stato di necessità, determinato dalla incombente minaccia di un modulo coercitivo in grado di punire il subordinato per il suo eventuale rifiuto di obbedienza gerarchica: questi sarebbe indotto all'esecuzione dell'ordine, pur manifestamente criminoso, per il timore di gravi conseguenze pregiudizievoli.
Occorre tuttavia valutare, attraverso il noto meccanismo della comparazione dei beni giuridici protetti, il rapporto fra l'entità lesiva dei fatti commessi e l'entità del pregiudizio minacciato all'agente in caso di disobbedienza, escludendosi comunque dall'area della scriminante di cui all'art. 54, terzo comma, c.p. quelle fattispecie gravemente lesive che il subordinato abbia commesso, nell'eseguire l'ordine superiore, per salvarsi da pericoli di minore rilievo.
Nella fattispecie concreta in esame, i giudici di merito hanno dato rettamente conto, con puntuale e adeguato riferimento a precise risultanze probatorie (le minacce di esecuzione sul posto profferite dal cap. Schutz nei confronti di eventuali riottosi erano rivolte alla truppa o ai sottufficiali, non agli altri ufficiali in posizione di parigrado; l'esitazione del soldato Wetjen fu affrontata personalmente dal Kappler con atteggiamento paternalistico e cameratesco; il soldato Amons svenne e non ebbe il coraggio di sparare, ma non subì alcun pregiudizio; all'ordine di esecuzione della rappresaglia, pur proveniente dalle più alte gerarchie militari del regime - se non addirittura, secondo alcune ricostruzioni storiche, dal Fuehrer in persona -, venne opposto un fermo e irrevocabile rifiuto da parte del magg. Dobrik del battaglione Bozen e del col. Hanser del comando della 14a armata, senza che essi ebbero a patire alcuna conseguenza sul piano dell'onore militare o dell'incolumità fisica), della mancanza di momenti coercitivi, esercitati sia nella predisposizione che nell'esecuzione della strage nei confronti degli ufficiali del comando romano delle SS, i quali parteciparono ad essa in pieno accordo e con convinta adesione psicologica, tanto da convenirsi nel corso di una delle riunioni preparatorie che ciascuno degli ufficiali avrebbe sparato almeno una volta per dare l'esempio alla truppa.
Non vi è alcuna prova in atti - neppure sotto il profilo putativo della coazione psichica - di una minaccia tale da porre in pericolo, attuale ed immediato, la vita delle persone degli ufficiali, che si fossero rifiutati di partecipare alla strage, essendo ipotizzabili tutto al più conseguenze pregiudizievoli per l'onore e il cursus militare o il deferimento al tribunale speciale delle SS.
E però, punizioni disciplinari o anche misure coercitive, meramente eventuali, sembrano davvero poca e irriverente cosa a fronte della perpetrata strage di persone innocenti: nel rapporto di misura tra i beni in conflitto difetta ictu oculi il requisito della proporzionalità fra l'effettivo pericolo prospettato (ma non attuale) e i fatti omicidiari che gli imputati sarebbero stati costretti a commettere.
III) Sulle circostanze aggravanti della premeditazione e della crudeltà verso le persone (artt. 577, nn. 3 e 4, e 61 n. 4 c.p.).
1. I difensori dei ricorrenti hanno denunziato violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta aggravante della premeditazione, che, per quanto riguarda in particolare l'Hass, sarebbe stata - a suo dire - a lui ascritta nonostante il ruolo meramente esecutivo svolto nella vicenda omicidiaria.
La doglianza é infondata.
La corte militare d'appello ha ritenuto sussistente l'aggravante della premeditazione a carico di entrambi gli imputati, sia sotto il profilo psicologico che sotto quello cronologico, sulla base di una pluralità di fattori dotati di valore obiettivamente sintomatico.
Le concrete modalità dell'eccidio, deliberato secondo l'ordine veicolato, da ultimo, dal gen. Maeltzer al ten. col. Kappler, furono concordate da questi con i suoi ufficiali in occasione di ripetuti incontri e riunioni negli uffici dell'Aussenkommando, che videro protagonisti il Priebke e, per quello decisivo, anche l'Hass, cui seguì, dopo un non irrilevante intervallo temporale costituito da alcune ore, la fase esecutiva.
Meritano di essere sottolineati - nell'originaria programmazione e nel progressivo svolgersi della vicenda - l'accurata scelta e predisposizione del luogo della strage, l'identificazione e il raggruppamento delle vittime provenienti nel numero prefissato da due diverse prigioni, la precisa distribuzione dei ruoli per ufficiali, sottufficiali e soldati quanto alle concrete modalità di avvio e di uccisione dei prigionieri all'interno della cava, l'impegno di ciascun ufficiale di eseguire personalmente almeno un'uccisione per dare l'esempio alla truppa, l'estrema organizzazione di uomini e mezzi.
Nessun ripensamento intervenne nell'animo degli imputati, neppure di fronte all'incalzante succedersi dei tragici eventi di morte presso le Cave Ardeatine in danno di ben trecentotrentacinque persone.
In quel lasso di tempo gli imputati avrebbero potuto rinunziare al progetto omicidiario se solo lo avessero voluto, attivando il prescritto dovere di disobbedienza di fronte all'ordine superiore manifestamente criminoso.
Il che non avvenne e l'azione delittuosa programmata venne eseguita senza esitazione alcuna.
Lo stesso giudice, dopo avere tratto gli elementi sintomatici per l'individuazione della premeditazione (che attiene all'intensità del dolo per il perdurare nel tempo all'interno del soggetto di una risoluzione criminosa irrevocabile) nella condotta di adesione al delitto di ciascuno dei soggetti agenti, in ossequio al disposto dell'art. 118 c.p., come sostituito dall'art. 3 l. 7.2.1990 n. 19, ha rilevato altresì correttamente l'irrilevanza del quesito rispetto alle uccisioni non preventivate dei cinque testimoni, poiché, trattandosi di plurimi fatti omicidiari attuativi del medesimo disegno criminoso, era sufficiente avere configurato gli estremi dell'aggravante de qua per almeno una delle violazioni.
Premesso che elementi costitutivi dell'aggravante della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso - elemento di natura cronologica -, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine - elemento di natura ideologica -, osserva la Corte che le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata non meritano le anzidette censure, poiché risulta in essa adeguatamente apprezzata, con motivazione logicamente rigorosa, la sussistenza di entrambi gli elementi costitutivi dell'aggravante, reciprocamente integrantisi nell'accurata ricostruzione dei fatti.
Quanto alla specifica posizione dell'Hass, il quale pure ebbe a rivestire un ruolo meno pregnante di quello del Priebke nella fase preparatoria dell'eccidio, deve comunque ribadirsi il principio secondo cui, se il concorrente, pur non avendo direttamente partecipato all'originaria deliberazione volitiva dell'omicidio, tuttavia ad esso partecipa nella piena consapevolezza dell'altrui premeditazione, maturata prima dell'esaurirsi del proprio volontario apporto alla realizzazione dell'evento criminoso e a tale distanza di tempo da consentire che la maturazione del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori, la sua volontà adesiva al progetto investe e fa propria la particolare intensità dell'altrui dolo, talché la relativa aggravante non può non essere riferita anche a lui (Cass., sez. V, 26.6.1997, Morelli, rv. 208704; sez. I, 28.4.1997, Matrone, rv. 207997; 17.5.1994, Caparrotta, rv. 199812).
Privo di pregio é infine il rilievo difensivo circa la diversa statuizione del Tribunale supremo militare che, con sentenza in data 25.10.1952, negò l'esistenza della premeditazione in capo al Kappler ("per l'immediata contestualità tra la notizia del decesso del 33° soldato e la deliberazione di aggiungere altre dieci persone all'elenco delle vittime" e, quanto all'uccisione degli altri cinque, per essere stata la fucilazione "commessa in continenti dell'intera strage"), poiché questi, sull'assunto di un preteso "dubbio circa la coscienza e la volontà dell'imputato di obbedire ad un ordine criminoso per quanto ha tratto alla fucilazione dei trecentoventi", fu dichiarato responsabile solo per l'uccisione delle altre quindici persone.
2.- Parimenti infondata appare l'ulteriore, invero generica, censura di violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla ritenuta aggravante della crudeltà verso le persone.
Il giudice di merito ha configurato esplicitamente, circa le modalità di esecuzione dell'eccidio di massa, gli estremi dell'aggravante in questione "nella stessa materialità del fatto", caratterizzato (alla luce della dichiarazione del soldato Amons e della relazione dei medici legali prof. Ascarelli e dott. Carella sulle modalità di rinvenimento dei cadaveri, trascritta efficacemente nella sentenza Kappler del 1948 e recepita integralmente nell'odierno processo) da una incommensurabile spietatezza, efferatezza e insensibilità morale di macroscopica evidenza da parte dei suoi autori, ai quali non può certo giovare, neppure sotto questo profilo, la circostanza che il delitto fosse stato commesso per ordine del superiore, laddove questo era - come si è già dimostrato - manifestamente criminoso e comportava anzi l'obbligo di disobbedienza.
E' risultato difatti che "... Le vittime in genere, e a maggior ragione quelle giunte dal carcere di Regina Coeli quando erano state fucilate oltre cento persone giunte dal carcere di via Tasso, erano trattenute ad attendere, con le mani legate dietro la schiena, sul piazzale antistante all'imboccatura della cava, da dove, frammiste con le detonazioni, esse udivano le ultime angosciose grida delle vittime che le avevano precedute. Esse poi, entrate nella cava per essere fucilate, scorgevano alla luce delle torce i numerosi cadaveri ammucchiati delle vittime precedenti. Infine esse venivano fatte salire sui cadaveri accatastati e qui costretti ad inginocchiarsi con la testa reclinata in avanti per essere colpite a morte ...".
Trattasi dunque di apprezzamento logicamente coerente con la descritta dinamica dei tragici eventi di morte, ai quali hanno direttamente partecipato entrambi gli imputati, e con i principi di diritto affermati da questa Corte in ordine all'aggravante di natura soggettiva di cui all'art. 61 n. 4 c.p. (intesa come assenza, nel comportamento dell'autore dell'illecito, di ogni sentimento di pietà e di umanità propri dell'uomo civile, rivelata dal modus agendi consistente in quid pluris rispetto all'ordinaria produzione dell'evento, tale da giustificarne la maggiore riprovevolezza sotto il profilo dell'intensità del dolo: Cass., sez. I, 3.10.1997, Di Pinto, rv. 209957; 10.2.1997, Scorza, rv. 207222; 20.11.1995, Flore, rv. 204071; 29.5.1995, Fagnano, rv. 202470; 20.12.1993, Etzi, rv. 196417; 6.10.1987, Mastrototaro, rv. 177452), e perciò incensurabile in sede legittimità.
IV) Sulle circostanze attenuanti della determinazione al reato da parte del superiore e della minima importanza dell'opera prestata (art. 59, nn. 1 e 2, c.p.m.p.).
1. I difensori dell'Hass e del Priebke hanno lamentato la mancata applicazione della speciale e facoltativa circostanza attenuante prevista dall'art. 59 n. 1 c.p.m.p., per la quale la pena da infliggere per il reato militare può essere diminuita "per l'inferiore che è stato determinato dal superiore a commettere il reato": il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto debito conto del reale significato del termine "determinazione", nonché dell'influenza, autorità carismatica e posizione gerarchica del Kappler.
La doglianza, nei limiti in cui prospetta, nella sfera della gerarchia militare, la tesi di una meccanicistica sovrapposizione delle autonome nozioni di "ordine" e di "determinazione" del superiore, è destituita di fondamento.
Mette conto innanzi tutto di osservare che la previsione normativa di settore trova corrispondenza nell'analoga attenuante stabilita dal codice penale nell'art. 114, terzo comma, c.p. - in riferimento ex adverso alla simmetrica circostanza aggravante di cui all'art. 112, comma 1° n. 3 - "per chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato" da parte di persona esercente nei suoi confronti "autorità, direzione o vigilanza".
La ragione di fondo dell'attenuazione di pena - comune ad entrambe le ipotesi, speciale e generale - è rinvenibile nell'esigenza di punire con minore rigore il diminuito grado di colpevolezza dimostrato dal concorrente, che sia indotto a commettere il reato a causa dell'abuso o approfittamento della posizione di soggezione o d'inferiorità gerarchica, in cui egli versa, da parte del superiore o dell'esercente autorità, direzione o vigilanza.
Nell'area semantico-lessicale del termine "determinare" appare evidente il significato di "spinta", "induzione", "suggestione", "persuasione" o "sollecitazione" attiva a fare una scelta.
Non basta dunque - ad avviso dell'opinione dominante sia in dottrina che in giurisprudenza - avere provocato nel "determinato" la semplice idea, ma occorre che il "determinatore" abbia fatto sorgere, mediante una consapevole ed efficiente attività di pressione e condizionamento tipica dei rapporti che comunque comportino una supremazia, l'effettiva risoluzione di eseguire il (concorrere nel) reato, attenuando le facoltà di reazione e superando ogni dubbio o controspinta nell'animo dell'agente che versi in uno stato di "soggezione psicologica" e di minore resistenza (Cass., sez. II, 10.3.1989, Verdiglione, rv. 181901, in Cass. pen., 1990, I, 2115; sez. III, 25.1.1962, Montomoli).
Da tale premessa teorica appare lecito inferire, quale corollario di lineare conseguenzialità logico-giuridica, l'insussistenza di una corrispondenza biunivoca fra il concetto di "determinazione" dell'inferiore a commettere un reato - art. 59 n. 1 c.p.m.p. - e quello di "ordine" del superiore di commettere un fatto costituente reato - art. 40, co. 3° e 4°, c.p.m.p. -: da un lato, non è sostenibile in astratto la radicale impermeabilità dei casi di criminosità manifesta dell'ordine superiore alla speciale attenuante de qua; dall'altro, nello svolgimento dell'attività militare la riconducibilità di un fatto delittuoso commesso dall'inferiore all'ordine del superiore non è automaticamente sovrapponibile alla diversa ipotesi dell'induzione dell'inferiore alla commissione del medesimo reato mediante il concreto abuso della posizione gerarchicamente sovraordinata.
Ed è questo l'apprezzamento effettuato, nella fattispecie in esame, dalla corte militare d'appello, la quale ha delineato una situazione di concorde collaborazione di tutti gli ufficiali del comando romano delle SS alla programmazione ed all'esecuzione dell'eccidio, di assenza cioè di una "determinazione" rilevante nella commissione del delitto, intesa questa nel senso di concreta attività di coazione o pressione psicologica e di strumentale sfruttamento dello stato di subordinazione degli inferiori nell'ambito della realizzazione del fatto illecito collettivo: in sintesi, "senza che il Kappler o i suoi superiori dovessero abusare del loro grado per convincerli" e indirizzare nel senso voluto le loro azioni.
Trattasi di motivata valutazione fattuale che, siccome ancorata ad espliciti percorsi argomentativi, non viziati da palese illogicità, esaustivi nell'interpretazione delle risultanze processuali e sostanzialmente coerenti con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte, appare incensurabile in sede di legittimità.
2. Parimenti infondata risulta la censura, mossa dalla difesa dell'Hass, in punto di diniego della circostanza attenuante prevista dall'art. 59 n. 2 c.p.m.p. "per il militare che nella preparazione o nella esecuzione del reato ha prestato opera di minima importanza".
La speciale attenuante prevista dalla disciplina di settore - perfettamente corrispondente a quella generalmente stabilita dal codice penale nell'art. 114, primo comma - postula una marginale partecipazione morale o materiale al reato, ossia un contributo di lievissima efficacia causale della condotta del correo rispetto alla complessiva serie causale produttiva del risultato finale dell'impresa criminosa (Cass., sez. I, 2.7.1997, Berio, rv. 208264; 24.11.1995, Pellegrino, rv. 203549; 11.5.1994, Scaringella, rv. 198123; sez. II, 16.4.1993, La Torre, rv. 194051; sez. I, 4.12.1981, Cambareri, rv. 152848).
Ciò posto, appare corretto l'esplicito riferimento della corte militare d'appello alle risultanze probatorie riguardanti la partecipazione dell'Hass alla fase esecutiva dell'eccidio di massa, mediante la diretta uccisione di almeno due prigionieri a fini d'esemplarità per la truppa, per inferirne logicamente il carattere assolutamente primario del contributo causale da lui dato alla materiale consumazione di siffatti eventi di morte, legati a tutti gli altri episodi omicidiari dall'identità del disegno criminoso.
V) Sulle circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.).
La difesa dei ricorrenti ha aspramente criticato il diniego delle attenuanti generiche, rilevando che l'assenza di condotte criminose giuridicamente rilevanti nel tempo susseguente al reato, l'attendibile prognosi di non recidiva e l'ormai affievolita capacità a delinquere, avuto riguardo all'età avanzatissima e al tempo assai risalente del commesso reato, avrebbero senz'altro giustificato un più mite trattamento sanzionatorio.
1. La corte militare d'appello ha innanzi tutto disatteso la tesi interpretativa più rigorosa circa la c.d. "ultrattività" della legge penale di guerra, per la quale l'art. 23 c.p.m.g., in linea con il principio fissato dall'art. 2, quarto comma, c.p. per le leggi eccezionali, sancirebbe, mediante la ferrea regola del "tempus regit actum" per i reati commessi "in tempo di guerra", l'impermeabilità dell'intera disciplina del fatto vigente nel marzo 1944 rispetto a qualsiasi modificazione legislativa successivamente intervenuta, di settore penale speciale o di parte generale del codice penale, recante disposizioni più favorevoli per il reo: quale, giustappunto, l'art. 2 d.lgs.lt. 14.9.1944 n. 288 introduttivo dell'art. 62-bis c.p.
E tale orientamento merita di essere pienamente condiviso in considerazione dell'integrale autonomia di tutte le norme del primo libro del codice penale - "Dei reati in generale" - rispetto allo statuto delle singole fattispecie incriminatrici previste dalla legge penale di guerra: così aderendosi, d'altra parte, alla lettura proposta dalla Corte costituzionale, con sentenza 16.1.1978 n. 6, riguardo ai limiti di ultrattività delle norme penali tributarie ex art. 20 l. 7.1.1929 n. 4, in materia di giudizio di comparazione fra circostanze e di reato continuato.
Laddove la legge penale militare di guerra non contenga specifiche disposizioni derogatorie rispetto a quelle della legge penale comune, come ad esempio sulle attenuanti generiche, non può certo invocarsi il pur coesistente rapporto di complementarità tra legge penale comune e legge penale militare, di pace e di guerra, per ostacolare il sano dispiegarsi dell'operatività dell'art. 2, terzo comma, c.p., disciplinante la successione di leggi penali nel tempo secondo un criterio ispirato al preminente favor rei.
Una diversa e più estensiva interpretazione del principio di ultrattività della legge penale militare di guerra concretizzerebbe una lesione dei canoni costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, dal momento che, per quanto riguarda la disciplina comune e perciò necessariamente unitaria di istituti generali - come le circostanze attenuanti generiche (ma lo stesso potrebbe dirsi per la valutazione delle circostanze soggettive ex art. 118 c.p. novellato dall'art. 3 l. 19/90 cit., ovvero per la tipologia delle pene principali, fra le quali non è più annoverata la pena di morte per i delitti previsti dal c.p.m.g. e dalle leggi militari di guerra solo in forza del più favorevole jus superveniens costituito dall'art. 1 l. 13.10.1994 n. 589) -, non si potrebbero addurre le ragioni che giustificano invece l'autonomo trattamento delle fattispecie criminose previste da quello speciale ed organico corpus normativo: l'esigenza cioè di mantenere costante nel tempo l'efficacia di prevenzione generale di quelle disposizioni incriminatrici e di assicurare l'omogeneità di repressione dei delitti bellici commessi durante lo stato di guerra.
2. Lo stesso giudice di merito ha peraltro escluso - in linea di fatto - il concorso delle circostanze attenuanti generiche, in considerazione del peso "marginale" e "trascurabile" degli elementi del tempo trascorso dal fatto senza la commissione di ulteriori reati e della età avanzatissima degli imputati, subvalenti se collocati a contrasto con i connotati oggettivi di "inaudita gravità" e di "manifesta disumanità" del "barbaro eccidio" di cui essi si resero protagonisti, indice di "ineguagliabile malvagità", anche sotto il profilo della capacità a delinquere e della tendenza criminosa manifestata dagli autori nel delitto perpetrato.
Sono stati esplicitamente indicati gli elementi rilevanti e di efficacia decisiva per il diniego delle attenuanti generiche e, di conseguenza, per il corretto adeguamento della sanzione al reale disvalore dei fatti come innanzi rivisitati, alla stregua di un giudizio francamente negativo (anche se espresso, in alcuni passaggi motivazionali, con accenti affatto enfatici) delle personalità degli autori, quale si fonda su tutte le risultanze processuali attinenti ai fatti medesimi.
L'affermazione di non meritevolezza di un più mite adeguamento sanzionatorio, sotto il profilo della concessione delle circostanze attenuanti generiche e, in prospettiva, di un favorevole giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti e aggravanti, ai sensi degli artt. 62-bis e 69 c.p., risulta dunque adeguatamente fondata su plausibili ragioni legate alla significazione più diretta ed immediata dell'effettiva gravità dei fatti contestati, nel quadro di una valutazione negativa della personalità degli imputati, che ha consentito al giudice di merito di disattendere - non arbitrariamente - le specifiche richieste in tal senso avanzate dagli imputati.
L'adeguatezza e la logicità dell'apparato argomentativo a sostegno della menzionata conclusione negativa in punto di attenuanti generiche, con particolare riferimento al criterio preponderante e decisivo della estrema gravità dei fatti (per la cui autonoma sufficienza cfr. Cass., sez. V, 9.2.1984, Amoroso, rv. 163641; 17.1.1970, Stabile, rv. 114031) determina, giusta l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, l'insindacabilità dell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito in sede di controllo di legittimità e la radicale inammissibilità del relativo motivo di gravame.
VI) Sul ricorso di parte civile.
La corte militare d'appello, nel condannare gli imputati alla rifusione delle spese del relativo giudizio sostenute dalle parti civili, non ha preso in considerazione le parcelle presentate da quei difensori che non risultavano provvisti di procura speciale ad essi espressamente conferita dalle parti civili anche per quel grado di giudizio.
Ha proposto ricorso per cassazione l'avv. P.A. Sodani, difensore della parte civile Roberto Massari, deducendo la violazione degli artt. 100.3 e 541 c.p.p. in punto di rifusione delle spese del giudizio d'appello, denegata da quel giudice sull'erroneo presupposto della mancanza di specifica procura speciale per la fase di gravame, poiché l'originaria procura era stata rilasciata dall'interessato al difensore per l'intero procedimento e non solo per il primo grado di giudizio.
Il ricorso è fondato, poiché, come s'evince dal tenore letterale delle originarie procure speciali conferite dal Massari all'avv. P.A. Sodano per essere rappresentato e difeso "nel procedimento" - laddove si elencano, fra i più ampi poteri in merito, anche quello di "presentare istanze, ricorsi ed appelli" - è manifesta la volontà del primo di prolungare il conferimento dell'incarico per tutti i gradi del giudizio a carico dell'Hass e del Priebke.
La disposizione dell'art. 100.3 c.p.p. è stata, infatti, logicamente interpretata da questa Corte (aderendo all'analogo indirizzo giurisprudenziale di legittimità formatosi in sede civile riguardo alla procura alle liti ex art. 83, quarto comma, c.p.c.) nel senso che, quando nell'atto non sia espressa una diversa volontà, per ritenere estesa la procura conferita in primo grado anche al successivo grado di giudizio, in deroga alla presunzione iuris tantum di limitazione degli effetti dell'atto ad un determinato grado, è sufficiente che il difensore sia designato con locuzioni generali quali "nella presente procedura" o "nel presente procedimento" e simili, in considerazione del fatto che il "procedimento" si articola in più fasi (Cass., sez. VI, 8.3.1994, Spallanzani, rv. 198507).
VII) In conclusione, i ricorsi degli imputati vanno integralmente respinti, con la conseguente condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, nonché di quelle sostenute dalle parti civili costituite, liquidate come in dispositivo in correlazione al numero di esse rispettivamente rappresentate e difese da ciascun difensore.
In accoglimento del ricorso della parte civile Roberto Massari, l'impugnata sentenza dev'essere invece annullata senza rinvio limitatamente alla denegata condanna in solido degli imputati alla rifusione delle spese sostenute da quella parte civile nel giudizio d'appello.
Appare infatti superfluo - ai sensi degli artt. 620.1 lett. l) e 622 c.p.p. ("quando occorre") - il rinvio sul punto al giudice civile competente per valore in grado d'appello, ben potendo questa Corte provvedere direttamente alla liquidazione del relativo importo, alla stregua dei medesimi parametri adottati dal giudice di merito per analoghe posizioni, sulla base cioè della tariffa professionale e della parcella e in correlazione al numero delle parti civili rappresentate e difese, nella misura complessivamente indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi degli imputati e li condanna al pagamento in solido delle spese processuali; li condanna altresì alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili - in solido limitatamente alle costituzioni nei confronti di entrambi - così liquidate:
lire 5.000.000 complessive in favore delle parti difese e rappresentate dall'avv. P. Nicotera;
lire 1.200.000 complessive in favore della parte difesa e rappresentata dall'avv. D. Panetta;
lire 12.000.000 complessive in favore delle parti difese e rappresentate dall'avv. S. Di Lascio;
lire 12.000.000 complessive in favore delle parti difese e rappresentate dall'avv. M. Gentili;
lire 10.000.000 complessive in favore delle parti difese e rappresentate dall'avv. G. Maniga;
lire 2.000.000 complessive in favore della parte difesa e rappresentata dall'avv. G. Lo Mastro;
lire 3.500.000 complessive in favore delle parti difese e rappresentate dall'avv. B. Andreozzi;
lire 1.200.000 complessive in favore della parte difesa e rappresentata dall'avv. P.A. Sodani;
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'omessa condanna in solido degli imputati alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio d'appello dalla parte civile Roberto Massari, che liquida in complessive lire 1.440.000.
Così deliberato in camera di consiglio il 16 novembre 1998.
Il Consigliere estensore
dott. Giovanni CanzioIl Presidente
dott. Francesco Sacchetti
[Source: Public Prosecutor v. Karl Hass and Erich Priebke, Sentenza della Corte Suprema di Cassazione, in data 16.11.1998, Italy, 16 November 1998. By way of: Ministerio della Difesa]
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