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07Mar98 - ITA
Sentenza della Corte Militare di Appello di Roma
(Caso Fosse Ardeatine: Erich Priebke e Karl Hass)
Back to topRepubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Corte Militare d'Appello
composta dai Signori:Dott. Giuseppe Monica - Presidente
Dott. David Brunelli - Giudice
Dott. Francesco Ufilugelli - Giudice
Cap. Freg. MM Giancarlo Secci - Giudice
Ten.Col.EI Claudio Saladini - Giudicecon l'intervento del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale militare dott. Giuseppe Rosin e con l'assistenza del Collaboratore di Cancelleria Renato Rocca, ha pronunciato in pubblica udienza la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale a carico di:
HASS Karl, nato il 5 ottobre 1912 ad Elmscherhagen (Germania), residente ad Albiate Brianza (Milano), elettivamente domiciliato presso il suo difensore avvocato Stefano Maccioni, del foro di Roma, già Maggiore delle "SS" germaniche, libero;
PRIEBKE Erich, nato il 29 luglio 1913 a Berlino (Germania), in atto agli arresti domiciliari, già Capitano delle "SS" germaniche;
in seguito alle impugnazioni proposte del Procuratore generale militare, dal Procuratore militare, dal difensore di Hass e dai difensori di Priebke, avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale militare di Roma, in data 22 luglio 1997; ed essendosi costituite come parti civili, nei confronti dell'uno e/o dell'altro degli imputati e per mezzo del difensore rispettivamente specificato, le seguenti:
nei confronti di entrambi gli imputati:
Romoli Luciana, (rappresentata e difesa dall'avvocato Sebastiano Di Lascio, del foro di Roma);
Agnini Ferdinando, Agnini Francesco, Anticoli Ada, Bolgia Rosa, Cacchione Ada, Calderari Lucia, De Angelis Modestino, De Simoni Alba, Di Castro Emma, Di Veroli Agesilao, Di Veroli Emilia, Di Veroli Giacomo, Di Veroli Giovanni, Di Veroli Lazzaro, Frasca Bruno, Galafati Emore, Martella Dina, Mastrogiacomo Giacinto, Spizzichino Giulia, Vittoria Elena, Zerbini Romualdo, (rappresentati e difesi dall'avvocato Marcello Gentili, del foro di Milano);
Ayroldi Antonella, Ayroldi Carlo, Baglivo Simona, Barbieri Franca, Bolgia Giuseppe, Bolgia Rosa, Butera Rosaria, Buttaroni Rosanna, Margioni Giancarlo, Papa Michela, Pappagallo Antonio, Pietrantoni Armando, Polli Maria, Prasca Massimo, Rivalta Anna, Stame Alessandra, Stame Rosina, Stame Teresa, Uttaro Ida, Volponi Sergio, (rappresentati e difesi dall'avvocato Giancarlo Maniga, del foro di Milano);
Comunità Ebraica, (rappresentati e difesi dall'avvocato Oreste Bisazza Terracini, del foro di Roma);
Sed Celestina, Sonnino Giacomo, (rappresentati e difesi dall'avvocato Pietro Nicotera, del foro di Roma);
Canacci Annamaria, rappresentata e difesa dall'avvocato Tommaso Mancini, del foro di Roma);
Landesman Alberto, Landesman Oscar, Landesman Tamara, (rappresentati e difesi dall'avvocato Pietro Annese, del foro di Roma);
Unione Comunità Ebraica di Roma, (rappresentata e difesa dall'avvocato Bruno Andreozzi, del foro di Roma);
- nei confronti dell'imputato Priebke:
A.N.F.I.M., Ayroldi Isabella, Bernardini Roberto, Campitelli Maurizio, D'Andrea Rinaldo, Gigliozzi Giovanni, Gigliozzi Silvio, Marchetti Giorgio, Marchetti Mauro, Marchetti Marisa, Marchetti Marilena, Marchetti Elide, Marino Sergio, Ninci Marcella, Paggetti Livia, Prosperi Annamaria, Prosperi Gabriella, Prosperi Irma, Savelli Ildebrando, (rappresentati e difesi dall'avvocato Sebastiano Di Lascio, del foro di Roma);
Agnini Aldo (Carla), Angelucci Giulia, Angelucci John Denis, Antinori Adriana, Chiesa Giovanni B., Colombo Coen Carla, De Caro Benito, Fiorentini Celeste, Leoni Nicoletta, Maccaroni Fabio, Ricci Venanzio, (rappresentati e difesi dall'avvocato Marcello Gentili, del foro di Milano);
Angeli Elena, Di Nepi Samuel, Micozzi Domenica, Micozzi Giovanna, (rappresentati e difesi dall'avvocato Giancarlo Maniga, del foro di Milano);
Del Monte Marina, (rappresentata e difesa dall'avvocato Pietro Nicotera, del foro di Roma);
Comune di Roma, (rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Lo Mastro, del foro di Roma);
Werther Avolio, (rappresentato e difeso dall'avvocato Domenico Panetta, del foro di Roma);
Canacci Rosetta, Lecner Jole, (rappresentati e difesi dall'avvocato Tommaso Mancini, del foro di Roma);
Nobili Giuseppe, (rappresentato e difeso dall'avvocato Maria Paola Di Biagio, del foro di Roma);
Zaccagnini Milena, (rappresentato e difeso dall'avvocato Paolo Falcone, del foro di Roma);
Provincia di Roma, (rappresentata e difesa dall'avvocato Nicola Lombardi, del foro di Roma);
Massari Roberto, (rappresentato e difeso dall'avvocato Paolo Angelo Sodani, del foro di Roma);
Frascati Romolo, (rappresentato e difeso dall'avvocato Bruno Andreozzi, del foro di Roma);
- nei confronti dell'imputato Hass:
Giustiniani Antonio, Giustiniani Carlo, Leonardi Benito, Pasqualucci Ennio, Passarella Milena, Pignotti Angelo, Zauli Franco, (rappresentati e difesi dall'avvocato Sebastiano Di Lascio, del foro di Roma);
Fiorini Mirna, Fiorini Elisabetta, Giustiniani Marco, (rappresentati e difesi dall'avvocato Marcello Gentili, del foro di Milano);
Barisone Giancarlo, Bartoli Giancarlo, Bartoli Stefano, D'Andrea Jole, Elena Vittorina, Luna Wanda, Mancini Riccardo, Tedesco Amedeo, Valentini Alessandra, (rappresentati e difesi dall'avvocato Giancarlo Maniga, del foro di Milano);
Sonnino Grazia, (rappresentata e difesa dall'avvocato Pietro Nicotera, del foro di Roma);
Lecner Jole, (rappresentata e difesa dall'avvocato Antonella Faieta, del foro di Roma);
Canacci Rosetta, (rappresentata e difesa dall'avvocato Maria Paola Di Biagio, del foro di Roma);
Zaccagnini Milena, (rappresentata e difesa dall'avvocato Nicola Lombardi, del foro di Roma).
Tema della decisione.
1.1. Sentenza gravata di appello.
1.2. Motivi di appello.
2. Dibattimento di appello.
3. Motivi della decisione.
3.1. Procedibilità.
3.2. Fatto.
3.2.1.Ricostruzione degli eventi e sentenza Kappler del 1948.
3.2.2. Ordine ricevuto da Kappler.
3.2.3. Persone uccise in eccedenza.
3.2.4. Ruolo degli imputati nell'organizzazione romana delle R.S.H.A e loro modalità di partecipazione all'eccidio.
3.3. Diritto.
3.3.1. Art. 185 c.p.m.g.
3.3.2. Necessità o altro giustificato motivo.
3.3.3. Esecuzione dell'ordine: premesse normative.
3.3.4. Esecuzione dell'ordine: inesistenza di una situazione di conflitto di doveri.
3.3.5. Liceità putativa.
3.3.6. Necessità scusante.
3.3.7. Integrazione della fattispecie concorsuale.
3.3.8. Premeditazione.
3.3.9. Crudeltà.
3.3.10. Aggravanti non contestate.
3.3.11. Determinazione del superiore.
3.3.12. Minima importanza.
3.3.13. Attenuanti generiche: applicabilità.
3.3.14. Attenuanti generiche: merito.
3.3.15. Sanzione.
3.3.16. Spese in favore delle parti civili.
1. Con sentenza in data 22 luglio 1997 il Tribunale militare di Roma condannava Karl Hass alla pena della reclusione per anni dieci e mesi otto ed Erich Priebke alla pena della reclusione per anni quindici, avendoli ritenuti penalmente responsabili del reato ascritto loro di «concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani» (artt.13 e 185, commi 1 e 2 c.p.m.g., in relazione agli artt. 81, 110, 575 e 577, nn. 3 e 4, nonché 61, n.4, c.p.). Questa l'imputazione: «per avere, quali appartenenti alle forze armate tedesche, nemiche dello Stato italiano, in concorso con Kappler Herbert ed altri militari tedeschi (alcuni dei quali già giudicati), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed agendo con crudeltà verso le persone, cagionato la morte di 335 (trecentotrentacinque) persone per lo più cittadini italiani, militari e civili, che non prendevano parte alle operazioni belliche, con premeditata esecuzione a mezzo colpi di arma da fuoco; in Roma, località "Cave Ardeatine", in data 24 marzo 1944, durante lo stato di guerra tra l'Italia e la Germania».
1.1.La motivazione della sentenza è articolata nel modo che segue
1.1.1. Dopo aver sintetizzato le molteplici vicende a cui il processo aveva dato luogo, è presa preliminarmente in esame una richiesta di proscioglimento dell'imputato avanzata dalla difesa del Priebke, basata sul presupposto che nei confronti di costui avrebbe dovuto trovare applicazione il combinato disposto dagli artt. 649 e 669, comma 8, c.p.p.: ciò in quanto la norma che impone al giudice di ordinare l' esecuzione della sentenza di proscioglimento, quando per il medesimo fatto contro la stessa persona sono state emesse una sentenza di proscioglimento ed una di condanna, avrebbe dovuto operare, attraverso un procedimento analogico in "bonam partem", anche nel caso di concorso di persone nel reato, laddove per il medesimo fatto uno dei coimputati sia stato condannato e l'altro assolto.
Ciò premesso, la difesa aveva sostenuto che, data la identità della posizione processuale del Priebke rispetto a quella di coloro che, coimputati del Kappler nel processo del 1948, furono assolti per aver agito in esecuzione di un ordine, un'eventuale affermazione di responsabilità penale nei suoi confronti sarebbe stata "inutiliter data".
Il Tribunale rileva - in conformità con le prospettazioni del p.m. e delle parti civili - che la situazione nella quale la citata pronuncia della Cassazione è intervenuta risulta comunque diversa rispetto a quella dell'odierno imputato, poiché in quel caso si trattava di due coimputati nel medesimo reato, ad uno dei quali era stata applicata la pena con il rito alternativo previsto dall'art. 444 ss. c.p.p., mentre l'altro era stato assolto al termine di ordinario rito dibattimentale, per quindi osservare che il divieto di un secondo giudizio, così come sancito dall'art. 649 comma 1 c.p.p.,attiene unicamente ad un medesimo fatto per il quale il medesimo imputato risulti essere già stato irrevocabilmente prosciolto o condannato, mentre l'art. 669 comma 8.c.p.p., pur nella estensiva lettura proposta da una ordinanza della Cassazione segnalata dalla difesa, non impedisce la celebrazione del processo nei confronti del coimputato nel medesimo reato, rispetto al quale altri sia stato assolto, poiché visibilmente ciascuna posizione concorsuale è autonoma e potenzialmente diversa rispetto ad ogni altra. Pertanto, il Tribunale conclude sul punto che la richiesta in questione, prima ancora che infondata, è inammissibile in quella sede.
1.1.2. Per quanto riguarda i fatti di causa il Tribunale si riporta alla sentenza emessa dal Tribunale Militare Territoriale di Roma in data 20 luglio 1948, all'esito del già citato processo a carico del Kappler nonché di altri cinque concorrenti nello stesso delitto; sentenza seguita, poi, da relativa pronuncia definitiva del Tribunale Supremo Militare in data 25 ottobre 1952. In motivazione è conseguentemente trascritta la seguente «parte di maggiore interesse di tale ultima sentenza» che il Collegio, ai sensi dell'art. 238 bis. c.p.p., dichiara di recepire e di integralmente condividere.
«Erano circa le ore quindici del 23 marzo 1944, allorché, all'interno della città di Roma, in via Rasella, all'altezza del palazzo Tittoni, al passaggio di una compagnia tedesca, avveniva lo scoppio di una carica di esplosivo, seguito dal lancio di bombe a mano. Nella compagnia, investita dallo scoppio e attaccata dalle bombe, si determinava lo scompiglio: elementi del reparto, ritenendo che gli autori dell'attentato si trovassero nelle case adiacenti, aprivano disordinatamente il fuoco in direzione delle finestre e dei tetti. Per l'attentato ventisei militari tedeschi rimanevano uccisi, altri feriti più o meno gravemente.
Alla notizia dell'attentato giungevano sul posto autorità tedesche e funzionari di polizia italiana: tra i primi accorsi, il comandante tedesco della città, Generale Mältzer, il console tedesco, Dott. Möllhausen,e, dopo circa mezz'ora, Kappler, avvertito dell'accaduto nel suo ufficio di via Tasso.
In quei frangenti era stata subito eseguita da ufficiali e sottufficiali della polizia tedesca una minuziosa perquisizione delle case di via Rasella e gli abitanti di esse erano stati condotti nella vicina via Quattro Fontane ed allineati lungo la cancellata del palazzo Barberini. Kappler, avvicinatosi a Mältzer, parlava dell'accaduto e chiedeva di essere incaricato di quanto concerneva l'attentato, ricevendo risposta affermativa.
Nel corso delle prime indagini venivano raccolte quattro bombe a mano, di fabbricazione italiana, che Kappler avvolgeva in un fazzoletto e faceva portare su una macchina della polizia tedesca, che, a dire di Kappler, veniva da lì a poco rubata da ignoti.
Dopo aver dato disposizioni circa i fermati, Kappler, alle ore 17.00, si recava al comando tedesco, e, alla presenza del Generale Comandante, esprimeva la sua opinione circa il modo e circa gli autori dell'attentato.
Costoro dovevano individuarsi in italiani appartenenti a partiti antifascisti: secondo Kappler, bombe a mano del tipo rudimentale di quelle da lui osservate venivano di solito usate dai partigiani italiani.
Ma l'effettiva ricerca degli autori dell'attentato non costituiva la prima attività della polizia né di altra autorità tedesca, perché, anzi, fino a tarda sera neppure venivano date disposizioni al riguardo e anche dopo che disposizioni venivano date da Kappler, le indagini erano condotte in maniera blanda, come quelle che non concernevano lo scopo fondamentale ed immediato che si intendeva perseguire.
Certo è che soltanto dopo la cessazione dell'occupazione militare tedesca i nomi degli autori dell'attentato di Via Rasella divenivano di dominio pubblico e nel corso del giudizio si conoscevano particolari circa la preparazione e l'esecuzione dell'attentato.
Questo era stato compiuto da una squadra di partigiani, appartenenti ad una organizzazione clandestina di resistenza, che operava nel territorio occupato dalle forze militari tedesche.
L'organizzazione in questione era una delle varie organizzazioni di resistenza, e, come le altre, si atteneva, tramite il proprio capo, alle direttive della Giunta Militare, che era un organo collegiale con competenza di coordinamento delle attività militari, emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale.
L'attentato di via Rasella rientrava nelle direttive della Giunta Militare e gli autori dell'attentato avevano operato, essendo vestiti di abiti civili, senza alcun segno distintivo di appartenenza ad una formazione militare partigiana.
Nella conversazione delle ore 17 dello stesso giorno 23 marzo tra Kappler e Mältzer, dopo l'indicazione di cui si è detto circa l'attribuzione dell'attentato ai Partigiani italiani, veniva in discussione il tema delle misure di rappresaglia da adottare per l'attentato.
La discussione sull'argomento veniva frequentemente interrotta da colloqui telefonici del Generale Mältzer: uno di questi, nel quale ricorreva spesso la parola rappresaglia, avveniva con il Generale Von Mackensen, Comandante la 14a Armata tedesca.
Secondo gli accordi, le persone dovevano essere scelte tra quelle che erano state condannate a morte o all'ergastolo o arrestate per reati punibili con la morte o la cui colpevolezza fosse rimasta accertata nelle indagini di polizia.
Kappler riferiva gli accordi al Generale Von Mackensen e costui dichiarava che, se fosse stato autorizzato al riguardo, sarebbe stato disposto a dare l'ordine di fucilare dieci delle persone delle categorie anzidette per ogni tedesco morto nell'attentato.
Von Mackensen aggiungeva che per lui era sufficiente che venissero fucilate soltanto le persone disponibili nelle categorie suindicate.
L'intendimento del comandante della 14a Armata di limitare il numero delle persone da uccidere in risposta all'attentato era superato da circostanze sopravvenute nel pomeriggio di quello stesso giorno.
Kappler, che aveva ritenuto opportuno non far cenno di quell' intendimento neppure al Generale Mältzer da cui si era congedato dopo avergli dato assicurazione della compilazione dell'elenco delle persone da mandare a morte, si recava al suo ufficio in via Tasso.
Ivi, nel tardo pomeriggio, una comunicazione telefonica del maggiore Böhm, addetto al comando militare della città, lo metteva al corrente che era giunto poco prima a quel comando dal comando del maresciallo Kesselring l'ordine di fucilare nelle ventiquattro ore un numero di italiani declupo del numero dei militari tedeschi morti per l'attentato.
L'evidente incompatibilità tra questo ordine e l'intendimento manifestato dal Generale Von Mackensen suggeriva a Kappler di comunicare direttamente con il comando del Maresciallo Kesserling: in tal modo Kappler apprendeva che l'ordine non era del maresciallo ma proveniva "da molto più in alto". L'ordine, infatti, era stato impartito da Hitler. Cadeva cosi la limitazione del numero di italiani da mandare a morte che era nel proposito del Generale Von Mackensen, e, correlativamente, rispetto al nuovo ordine, risultava chiara al Kappler, già in possesso dei dati raccolti dalle sezioni di polizia dipendenti, l'insufficienza del numero delle persone passibili di morte, secondo i criteri concordati con il Generale Harster, rispetto al numero necessario per dare esecuzione all'ordine che imponeva il rapporto di dieci a uno.
Da ciò aveva origine, nella sera del 23 marzo, un nuovo colloquio telefonico tra Kappler e il Generale Harster, che si concludeva con la determinazione di completare il numero dei destinati alla morte, traendoli dagli israeliti non rientranti tra i passibili di morte, ma in potere dei tedeschi a seguito dell'ordine generale di rastrellamento, in attesa del loro avviamento in campi di concentramento.
Durante la notte sul 24 marzo, alcuni militari tedeschi, tra quelli rimasti gravemente feriti nell'attentato, decedevano.
Al mattino, il numero dei morti tedeschi era trentadue, sicché il numero degli italiani da fucilare era di trecentoventi.
Pur con i nuovi criteri di scelta, Kappler aveva compilato una lista di duecentosettanta persone e per la differenza di cinquanta persone si rivolgeva alla polizia italiana, richiedendo la consegna del relativo elenco nominativo per le ore 13.00 dello stesso giorno.
A mezzogiorno, Kappler, aderendo a richiesta comunicatagli in mattinata dal Generale Mältzer, si recava nell'ufficio del Generale. Era presente anche il maggiore Dobrick, comandante del battaglione del quale faceva parte la compagnia che era stata oggetto dell'attentato di via Rasella.
Dopo essere stato informato dal Generale che l'ordine della rappresaglia era stato impartito da Hitler, Kappler riferiva al Generale circa le liste comprendenti trecentoventi nominativi, correlativi ai trentadue militari tedeschi fino a quel momento deceduti, e riferiva circa i criteri cui si era informata la scelta dei trecentoventi.
Dopo ciò, il Generale, passando all'argomento dell'esecuzione della rappresaglia, dichiarava che essa spettava al maggiore Dobrick.
Dobrick rappresentava al Generale ragioni ostative all'esecuzione della rappresaglia da parte del battaglione da lui comandato, e, a seguito delle eccezioni avanzate, il Generale Mältzer si rivolgeva telefonicamente al comando della 14aArmata, perché all'esecuzione provvedesse un reparto dell'armata.
La testuale risposta del Colonnello Hauser, con cui il Generale Maeltzer stava comunicando, era: "La polizia è stata colpita. La polizia deve fare espiare".
Il Generale Mältzer ripetuta questa frase, ordinava a Kappler di provvedere all'esecuzione.
L'ordine del Generale Mältzer era un ordine concreto di mettere a morte trecentoventi persone, quelle indicate nelle liste di cui Kappler aveva riferito e che il Generale aveva approvato in rapporto ai criteri seguiti nella scelta delle persone.
La tassatività dell'ordine circa il numero di trecentoventi persone era insita nella portata logica del suo contenuto, in rapporto alla competenza propria del Generale Mältzer nel corso della procedura eseguita, in rapporto alla possibilità, in concreto manifestatasi, che fossero diversi gli organi competenti rispettivamente alla formazione delle liste e all'esecuzione della rappresaglia, in rapporto, infine, alla prassi militare, secondo la quale gli ordini impartiti agli organi esecutivi sono tassativi, diversamente da quelli che vengono impartiti agli organi direttivi e di comando.
La tassatività dell'ordine circa il numero di trecentoventi persone importava, ovviamente, l'esclusione della facoltà di Kappler di aumentare il numero delle persone da condannare a morte, ciò che, invece, si verificava nelle circostanze che subito si espongono.
Kappler, congedatosi dal Generale Mältzer si recava al suo ufficio e, chiamati a rapporto gli ufficiali del suo comando, comunicava che tra qualche ora sarebbe stata eseguita la messa a morte di trecentoventi persone, alla cui esecuzione dovevano partecipare tutti gli uomini dipendenti di nazionalità tedesca, agli ordini del capitano Schütz.
Kappler impartiva a costui istruzioni circa il modo dell'esecuzione: per la ristrettezza del tempo, si doveva sparare, a distanza ravvicinata, un solo colpo al cervello, senza toccare la nuca della vittima con la bocca dell'arma. Il controllo del numero delle persone via via fucilate doveva essere compiuto dal Capitano Priebke. Il luogo dell'esecuzione doveva essere trovato dal Capitano Köhler: doveva scegliersi un luogo non lontano ed essere una cava i cui ingressi si potessero chiudere, sì da renderla una camera sepolcrale.
Kappler, dopo aver dato le disposizioni or ora riferite, si recava alla mensa ed ivi, dopo qualche tempo, apprendeva dal capitano Schütz la morte di un altro dei militari tedeschi colpiti dall'attentato e, contemporaneamente, dallo stesso capitano veniva informato che nella mattinata erano stati arrestati oltre una decina di israeliti.
Kappler, allora, ordinava al capitano di includere dieci degli arrestati tra quelli che dovevano essere messi a morte...Il numero effettivo delle persone fucilate era superiore anche a trecentotrenta. Era, infatti, per circostanze che si diranno più oltre, di trecentotrentacinque.
La fucilazione aveva luogo nel pomeriggio del 24 marzo nell'interno delle Cave Ardeatine, site a circa un chilometro dalla Porta San Sebastiano. Davanti all'ingresso si trovava un piazzale, sul quale giungevano gli autocarri con le vittime designate.
Erano - come si è detto - indicate in due liste, l'una formata di nominativi di persone a disposizione dell'autorità tedesca, l'altra formata di nominativi di persone a disposizione dell'autorità italiana.
Le prime provenivano dal carcere tedesco di via Tasso, le altre dal carcere giudiziario di Regina Coeli.
Partivano da quelle carceri, senza che nessuno comunicasse loro la tragica sorte che li attendeva: ogni avvertimento era parso pericoloso, temendosi che le invocazioni che potessero partire dalle persone del primo autocarro dessero occasione a tentativi di liberazione, al passaggio degli autocarri successivi.
Giunti sul piazzale antistante le Cave, le vittime venivano introdotte nell'interno a gruppi di cinque. Ciascuna di esse aveva le mani legate dietro la schiena, era presa in consegna da un militare tedesco che l'accompagnava, assieme alle altre di ciascun gruppo fino al fondo di una prima galleria e là veniva introdotta in una camera laterale e costretta ad inginocchiarsi. Allora, nel modo stabilito da Kappler, veniva data la morte da ciascun accompagnatore alla relativa vittima.
I gruppi successivi al primo, stando in attesa all'imboccatura delle Cave, udivano dall'interno, miste alle detonazioni delle armi da fuoco, le grida angosciose di coloro che li avevano preceduti.
Man mano che procedevano all'interno della cava, avvicinandosi al posto della fucilazione, le vittime, alla luce di torce, scorgevano i cadaveri ammonticchiati delle vittime prima uccise.
Gli esecutori erano stati riuniti, prima dell'inizio delle fucilazioni, dal Capitano Schütz, che aveva spiegato le modalità da seguire ed aveva affermato che coloro che non si sentivano di sparare non avevano altra via che porsi al fianco dei fucilandi
Kappler, assieme a quattro ufficiali, partecipava alla fucilazione del secondo gruppo di cinque. E, più tardi, partecipava alla fucilazione di un altro gruppo.
Uno dei soldati tedeschi (Amonn), comandato a prender parte alla fucilazione, alla vista dei morti, nella luce delle torce, rimaneva inorridito e sveniva: egli non sparava; un suo commilitone sparava in vece sua.
Le fucilazioni duravano fino alle ore 19.00. Subito dopo venivano fatte brillare delle mine, per chiudere quella parte della cava nella quale i cadaveri, ammucchiati fino all'altezza di un metro circa, occupavano un breve spazio».
1.1.3. Così richiamati i fatti di causa, la sentenza del Tribunale militare di Roma dà conto del tema, ampiamente sviluppato nel dibattimento, circa il ruolo svolto dal Priebke all'interno del Comando militare tedesco di via Tasso, evidenziando in particolare che:
- egli si era accattivato la fiducia di Kappler, per il quale operava anche come ufficiale di collegamento presso l'Ambasciata tedesca.
- l'imputato era inquadrato nell'ambito del IV Reparto della Polizia di sicurezza, alle dirette dipendenze del capitano Schütz nonostante quanto sostenuto dal Priebke medesimo nelle sue dichiarazioni spontanee, egli aveva partecipato all'arresto ed agli interrogatori di coloro che erano stati imprigionati in via Tasso, usando nei loro confronti ed in vario modo violenza; ciò sulla base di numerose deposizioni testimoniali: di Luciano Ficca, che all'udienza del 23 maggio 1997, ricorda che il Priebke durante un interrogatorio lo aveva minacciato impugnando un nerbo di bue; di Giovanni Gigliozzi, che all'udienza del 5 giugno 1997, ricorda che Arrigo Paladini gli aveva detto di essere stato colpito con un pugno di ferro dal Priebke allo stomaco e ai genitali; di Teresa Mattei, che all'udienza del 6 giugno 1997, ricorda come il Kappler ebbe ai riferire a padre Pfeifer che Gianfranco Mattei «era un comunista silenzioso che solo il Priebke con i suoi mezzi chimici e fisici poteva farlo parlare»; di Maria Teresa Regard, che all'udienza del 6 giugno 1997, produce copia di una denuncia di Carla Angelini, detenuta in Via Tasso, nella quale costei riferisce di essere stata arrestata dal «tenente Primbek»; di Elvira Sabatini, che all'udienza del 23 maggio 1997, conferma quanto scritto dal marito Arrigo Paladini, in un documento autografo acquisito agli atti, relativamente al modo di fare di Priebke durante gli interrogatori e di un malvagio inganno da costui perpetrato nei suoi confronti.
Diverso appare al Tribunale il ruolo svolto dall'imputato Hass, il quale dirigeva il sesto reparto delle "SS", e cioè quello cui era affidato il compito di occuparsi dello spionaggio all'estero e perciò nei rapporti con il Kappler godeva di una qualche autonomia funzionale. Nota il Tribunale come, proprio avvalendosi di questo ruolo, evidentemente l'Hass ebbe modo di intervenire durante la detenzione in via Tasso di Giuliano Vassalli, teste sentito all'udienza del 10 giugno 1997, il quale ha riferito che appunto l'Hass, con il pretesto di doverlo interrogare per le proprie finalità investigative, ne aveva ritardato l'esecuzione; ciò fino a quando il Vassali veniva scarcerato, malgrado l'ostinata resistenza di Kappler, per ordine diretto del generale Wolf, Comandante le "SS" per l'intero territorio italiano.
Ad avviso del Collegio la delineata diversità dei ruoli svolti dal Priebke e dall'Hass nel Comando tedesco di Roma aveva inciso anche nei modi della loro partecipazione all'eccidio delle Cave Ardeatine: il Priebke, dipendente diretto del Kappler, era stato chiamato a collaborare nella preparazione della strage, dapprima partecipando a formare gli elenchi dei martiri da passare per le armi e, qiundi, controllandoli al loro arrivo alle Cave in posizione di assoluta preminenza organizzativa; mentre l'Hass aveva partecipato alla sola fase esecutiva, avendo il Kappler disposto che ogni ufficiale, per dare l'esempio alla truppa, dovesse uccidere almeno un prigioniero.
1.1.4. Successivamente la sentenza passa ad esaminare la questione se l'azione partigiana di via Rasella, per reazione alla quale i tedeschi attuarono l'eccidio delle Cave Ardeatine, potesse o meno qualificarsi come atto legittimo di guerra, in quanto tale pienamente riferibile allo Stato italiano, ovvero come atto di guerra non legittimo, in quanto tale riferibile o meno all'organizzazione statale italiana. Il Tribunale osserva a tale riguardo che in quella sede non spettava «neppure "incidenter tantum", operare dell'attacco partigiano di via Rasella una qualificazione giuridica», per essere quest'ultima di fatto estranea ai fini del decidere. Infatti, riassunte le caratteristiche generali della rappresaglia come istituto giuridico del diritto internazionale, inteso - anche sulla base anche della definizione offerta dall'art. 8 della legge di guerra italiana (nel testo approvato con r.d. n.1415 del 1938), secondo il quale «l'osservanza di obblighi derivanti dal diritto internazionale può essere sospesa a titolo di rappresaglia, anche in deroga a questa o ad altra legge, nei confronti del belligerante nemico, che non adempie, in tutto o in parte, a detti obblighi» - quale volontaria lesione di un diritto o di un interesse giuridico di uno Stato, autore di un illecito internazionale, da parte dello Stato vittima, quale reazione per l'offesa ricevuta, ed evidenziato come tale reazione debba perciò rimanere proporzionata al danno subito, nonché venir attuata senza mai violare le fondamentali, elementari esigenze di umanità e di pubblica coscienza, si conclude che «con l'eccidio delle Cave Ardeatine, quale reazione dello Stato tedesco all'attacco di via Rasella, si realizzò una sproporzione inaccettabile tra la morte di trentatré militari germanici e l'uccisione di trecentotrentacinque persone, tra i quali cinque ufficiali generali ed undici ufficiali superiori» e che pertanto «almeno sicuramente sotto il profilo del mancato rispetto del requisito della proporzionalità, la rappresaglia delle Cave Ardeatine non può ritenersi legittima».
Nè potrebbe in contrario rilevarsi, sempre secondo il Tribunale, come l'Autorità tedesca avesse precedentemente emesso bandi militari che avvertivano la popolazione che, nel caso di attentati contro le forze militari germaniche, sarebbero state uccise persone, anche civili, nel rapporto di 10 a 1, essendo, viceversa, verosimile che nessun avvertimento di presentarsi sia stato rivolto agli attentatori di via Rasella, se non altro perché ne sarebbe comunque mancato il tempo materiale, posto che l'attentato si era verificato verso le ore 15 del 23 marzo 1944 mentre l'eccidio alle Cave Ardeatine si concludeva verso le ore 19 del 24 marzo 1944. Ciò, a prescindere dal considerare che nel caso in cui gli appartenenti ai Gap si fossero presentati alle Autorità tedesche, si sarebbe determinata una sorta di paralisi dell'attività partigiana di resistenza al nemico invasore.
Può inoltre aggiungersi - si legge ancora in sentenza - che nessun serio tentativo venne effettuato dalle Autorità militari tedesche per cercare di pervenire alla cattura o, quanto meno, all'identificazione dei mandanti e degli esecutori materiali dell'azione partigiana, essendo incontrovertibilmente emerso che non solo i tedeschi, ma anche i vari organismi italiani che con loro collaboravano, subito si occuparono esclusivamente di preparare l'eccidio delle Cave Ardeatine così da mandare a morte un enorme numero di persone del tutto estranee all'attentato, in quanto già da tempo detenute ovvero colpevoli agli occhi dei loro carnefici per il solo fatto di appartenere alla Comunità Ebraica romana ovvero in quanto rastrellate ciecamente nelle zone limitrofe alla via Rasella.
Se ne conclude che «appare carente nella "rappresaglia" attuata dai tedeschi alle Cave Ardeatine, oltre che il requisito della proporzionalità, anche l'ulteriore presupposto della necessità». Neppure, ad avviso del Tribunale, si potrebbe ricondurre l'eccidio delle Cave Ardeatine all'istituto della repressione collettiva, quale disciplinato dall'art. 50 della Convenzione dell'Aja del 1907: in primo luogo tale norma trova sistematica collocazione in una serie di prescrizioni (artt. da 48 a 53) che disciplinano misure di natura meramente patrimoniale, per cui una tale sanzione non potrebbe colpire persone fisiche, e tanto meno sancirne la morte, dovendo, invece, essere limitata all'ambito pecuniario o comunque patrimoniale; in secondo luogo, come la dottrina non ha mancato di evidenziare, tale istituto, è denominato "collettivo" proprio perché può colpire esclusivamente collettività e non singole persone. Ne consegue che tipico esempio di repressione collettiva è la requisizione dei beni mobili dello Stato, quali biblioteche, musei ed altro.
1.1. 5. Il passaggio successivo della sentenza è dedicato alla ricostruzione del tema concernente la compilazione delle liste delle vittime alle Cave Ardeatine. Vi si legge come appaia incontestabile che fossero compilate diverse liste dei condannati a morte: alcune vennero formate presso il Comando tedesco sino a comprendere inizialmente un totale di duecentosettanta persone (elevato tale numero a duecentottanta dopo che il Kappler, informato verso le ore 13 del 24 marzo 1944 dal capitano Schütz della morte di un ulteriore soldato tedesco, aveva dato l'ordine di aggiungere i nominativi di dieci ebrei arrestati al mattino stesso); altra lista riguardava cinquanta persone a disposizione della polizia italiana e, poiché fornita dalla Questura di Roma, è comunemente denominata "Lista Caruso", dal nome del Questore pro tempore. Sul punto, la sentenza fa innanzitutto riferimento alle risultanze del processo Kappler, e precisamente alla parte della motivazione della sentenza del 20 luglio 1948 nella quale si legge quanto segue.
«Alla domanda di quel Generale (Von Mackensen), intesa a conoscere su quali persone potevano essere eseguite le misure di rappresaglia, il Kappler rispondeva che, secondo gli accordi con il Generale Harster, la scelta avrebbe dovuto cadere su persone condannate a morte o all'ergastolo, e su persone arrestate per reati che prevedevano la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base all'indagini di polizia.
Alle ore 21 il Kappler aveva una conversazione telefonica col Generale Harster, al quale riferiva che, in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali però un numero notevole non rientrava nella categoria dei "todeswürdige" (meritevoli di morte). Circa cinquantasette, difatti, erano ebrei detenuti solo in base all'ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate in via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate ovvero erano state trovate in possesso di cose (una bandiera rossa, manifestini di propaganda, ecc.) che davano possibilità di una denuncia all'Autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d'accordo col suo superiore d'includere gli ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia.(...) Nella stessa serata egli chiedeva al Presidente del Feldgericht (Tribunale militare tedesco) di autorizzarlo ad includere nell'elenco le persone condannate da quel Tribunale alla pena di morte, a pene detentive, anziché alla pena di morte, per concessione di circostanze attenuanti inerenti alla persona ed, infine, le persone denunciate ma non ancora processate.(...) Nella notte l'imputato, con l'aiuto dei suoi collaboratori, esaminava i fascicoli delle persone considerate "todeswürdige" sulla base dei precedenti accordi. Alle ore 8 del mattino successivo il numero complessivo dei morti ammontava a trentadue.
Il mattino successivo, alle nove, il Kappler aveva un colloquio con il Commissario di P.S. Alianello che pregava di chiedere, con la massima urgenza, al vice capo della polizia Cerruti se la Polizia italiana era in grado di fornire cinquanta persone.
Il Cerruti poco dopo gli comunicava che avrebbe mandato da lui il Questore Caruso perché prendesse accordi in merito alla richiesta di cinquanta uomini.
Alle 9.45 il Caruso, accompagnato dal tenente Koch che in quel tempo svolgeva funzioni di polizia non ben definite (...) si presentava dal Kappler. Questi spiegava ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in conseguenza dell'attentato di via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone arrestate, a disposizione della polizia italiana, e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già compilato una lista di duecentosettanta persone.
A conclusione di questo colloquio si stabiliva che il Questore Caruso avrebbe fatto pervenire al Kappler, per le ore 13, un elenco di cinquanta persone.
Nell'elenco compilato dal Kappler con l'aiuto dei suoi collaboratori, numerosi erano i detenuti per reati comuni e gli ebrei arrestati per motivi razziali; tra gli altri, poi, una persona assolta dal Tribunale Militare tedesco e due ragazzi di quindici anni dei quali uno arrestato perché ebreo.(...) Il Kappler si recava a mensa. Ivi, qualche tempo dopo, il capitano Schütz lo informava di aver appreso poco prima della morte di un trentatreesimo soldato tedesco.(...) Il Kappler, saputo da quell'ufficiale che nella mattinata erano stati arrestati oltre dieci ebrei, dava ordine a quest'ultimo di includere dieci di questi tra quelli che dovevano essere fucilati.(...) Le vittime dei primi autocarri provenivano dal carcere di via Tasso, le altre dal carcere di Regina Coeli. Ivi si trovava il tenente Tunath, accompagnato dall'interprete S. tenente Kofler, del comando di polizia tedesca di Roma, il quale provvedeva a far avviare alle Cave Ardeatine i detenuti del terzo braccio a di sposizione dell'autorità militare tedesca.
Ultimato il prelevamento di questi detenuti, il Tunath si rivolgeva al direttore del carcere per avere i cinquanta che erano a disposizione della polizia italiana e che, secondo precedenti accordi, dovevano essere consegnati dal Questore Caruso. Poiché ancora non era giunta la lista, se ne faceva richiesta telefonica al Caruso, da cui si aveva promessa di un sollecito invio a mezzo di un funzionario. Il tempo trascorreva senza che giungesse tale lista. Il Tunath telefonava ancora alla Questura e parlava con il Commissario Alianello al quale violentemente diceva che «se non si mandava subito l'elenco avrebbe preso il personale carcerario» (dich. Alianello ud. del 26 giugno 1948). Dopo un pò di tempo il Tunath, stanco di aspettare, incominciava a prelevare dei detenuti in maniera indiscriminata. Poco dopo, sull'imbrunire arrivava il Commissario Alianello con una lista di cinquanta nomi, datagli dal Questore Caruso, che consegnava al Direttore del Carcere. Questi cancellava undici nomi, precisamente quelli indicati con i numeri progressivi da 40 a 49 e con i numeri 21 e 27, e li sostituiva con altri undici nomi relativi a persone che già erano state portate dal tenente Tunath e che non erano comprese nella lista. La cancellatura degli ultimi nominativi della lista era determinata dal fatto che la compilazione di questa era stata fatta iniziando dalle persone ritenute più compromesse, per continuare con quelle che si trovavano in posizione migliore; il depennamento dei nomi indicati con i numeri 21 e 27 veniva effettuato, invece, perché l'una persona era malata grave e l'altra non si riusciva a trovarla (...).
Il giorno successivo, il 25 marzo, il capitano Schütz e il capitano Priebke riferivano al Kappler che, da un riesame delle liste, risultava che i fucilati erano 335. Il secondo di quegli ufficiali spiegava che la fucilazione di cinque persone in più del numero stabilito da Kappler era dovuto al fatto che nella lista del Questore Caruso le vittime non erano segnate con un numero progressivo ed erano cinquantacinque invece che cinquanta (interr. Kappler, ud. dell'8 giugno 1948).
(...) I motivi addotti dal Kappler sulla base dell'informazione a suo tempo fornitegli dal capitano Schütz e dal capitano Priebke rispettavano in parte la vera causa della fucilazione.
Non è esatto, difatti, che le cinque persone fucilate in più siano fra quelle che erano a disposizione della polizia italiana e che esse siano sfuggite al controllo perché la lista di accompagnamento del Caruso indicava le persone senza numeri progressivi.
In base al riconoscimento delle salme, che si riferisce a trecentotrentadue persone, è risultato che quarantanove di esse (erano) di detenuti (...) a disposizione della polizia italiana e corrispondono a quarantanove nominativi della lista Caruso. Per il completamento di questa lista manca un nominativo, quello di di De Micco Cosimo, la cui salma non è stata (...) riconosciuta ed è da presumere sia una delle tre non identificate. Devesi ritenere, pertanto, che le cinque persone in più provengano dai detenuti a disposizione dei tedeschi.
Va poi osservato che non è esatto che la lista di accompagnamento dei cinquanta detenuti a disposizione della polizia italiana provenisse dall'ufficio del Caruso, essendo risultato che il Commissario Alianello portò due copie della lista Caruso e di esse una la diede al Direttore del Carcere, l'altra la trattenne».
Tale la ricostruzione dei fatti il Tribunale dichiara di far propria, però affermando di non condividere la conclusione cui il giudice del 1948 ritenne di dover pervenire, in ordine alla esecuzione di cinque persone in più rispetto al numero di trecentotrenta ordinato in origine dal Kappler e cioè che queste ultime vennero passate per le armi per errore e solo a seguito di un'involontaria loro inclusione nelle liste dei morituri. Così argomenta al riguardo testualmente la sentenza.
«A sostegno di tale denegata affermazione si citano varie considerazioni, tra le quali in primo luogo quanto dichiarato dal Kappler all'udienza dell'8 giugno 1948: "Nel corso della mattinata del 25, Schütz e Priebke vennero da me e mi riferirono che, dopo una constatazione risultavano giustiziati trecentotrentacinque e non trecentotrenta.(...) Priebke mi spiegò di aver avuto l'elenco dalla polizia italiana senza la numerazione delle vittime e che dopo l'esecuzione, nel fare la somma delle varie liste, constatò che la lista italiana conteneva cinquantacinque e non cinquanta (nominativi); (...) Conosco la copia della fotografia di una lista; mi è stata sottoposta diverse volte ed essa non è quella che nella mattinata del 25 mi fece vedere Priebke".
In secondo luogo si richiamano le dichiarazioni rese in data 27 dicembre 1947 al Pretore di Brunico dal sottotenente Kofler (il quale, come sopra ricordato, in qualità d'interprete aveva accompagnato il Tunath al carcere di Regina Coeli per prelevare le persone nominate nella lista Caruso): "Il tenente Tunath mi ordinò di accompagnarlo alle prigioni di Regina Coeli per raccogliervi il numero necessario dei prigionieri. Al nostro arrivo ci recammo subito al terzo braccio della prigione, che era sotto il controllo germanico. Tunath era in possesso di una lista dei nomi dei prigionieri richiesti. Egli diede questa lista alla guardia tedesca nell'ufficio di quel braccio dicendogli di far uscire i prigionieri dalle loro celle. Non ho visto il tenente apportare delle modifiche alla lista dei prigionieri, lista che egli teneva in tasca e che consultava col direttore del terzo ramo che era un maresciallo della Schütz-polizei, ragione per cui non era necessaria la mia opera d'interprete. Non sono quindi in grado di dare alcuna spiegazione circa la sostituzione dei detenuti Bucchi e Marchetti con i detenuti Bonemi e Caracciolo giacché io non fui presente alle decisioni prese tra Tunath e il direttore dell'ufficio terzo, nell'ufficio di quest'ultimo, essendomi io intrattenuto nel corridoio. La guardia ed i suoi assistenti cominciarono a chiamare i nomi dei prigionieri, e quando questi rispondevano venivano presi fuori dalle loro celle e riuniti in gruppo. Il primo gruppo di prigionieri ammontava a circa ottanta in tutto. Tunath ordinò quindi che le mani di tutti i prigionieri fossero legate dietro la loro schiena. Ciò fu fatto da uomini delle "SS". Quindi il gruppo di prigionieri fu scortato nel cortile della prigione. Contemporaneamente un altro gruppo di prigionieri veniva riunito nel terzo braccio. Questo gruppo assommava a circa settanta persone e i membri di questo gruppo erano trattati nello stesso modo dei membri del primo gruppo. A questo punto Tunath mi disse di chiedere al direttore delle carceri di telefonare a Caruso per accelerare la consegna degli altri cinquanta prigionieri che Caruso aveva messo a disposizione delle autorità germaniche. Questi prigionieri dovevano essere pure fucilati. Caruso informò il direttore delle prigioni di mettere i prigionieri a nostra disposizione, ed io ebbi a tradurre a Tunath quanto riferito dal Caruso al direttore . Tunath, quando gli comunicai la risposta del Caruso, si arrabbiò molto e mi fece tornare con lui all'ufficio del direttore. Il direttore, non ricordo il suo nome, disse a Tunath che ci sarebbe voluta una telefonata a Caruso (...) telefonò a Caruso e quest'ultimo disse che stava mandando uno dei suoi ufficiali alla prigione per accelerare la faccenda. Poco dopo l'ufficiale arrivò con la lista di Caruso. Mentre io ero nell'ufficio del direttore arrivarono numerose telefonate per la persona che aveva portato la lista dei cinquanta prigionieri. Costui apportò numerose alterazioni alla lista, cancellando alcuni nomi e sostituendone degli altri. In conseguenza di ciò ebbi l'impressione che doveva esserci della corruzione in giro.
Quando la lista fu pronta i rimanenti cinquanta prigionieri furono condotti fuori della prigione sotto scorta (...) e caricati in autocarri chiusi che stavano aspettando.
Io tornai con Tunath all'ufficio del direttore della prigione, dove vidi Tunath firmare qualche cosa che sembrava una ricevuta per i prigionieri portati via dai nostri uomini. Dopo accompagnai Tunath sul luogo dell'esecuzione. Quando arrivammo là stava facendosi buio (...) Tunath riferì a Kappler che il trasporto dei prigionieri era finito."
Ancora il Kappler, sempre in data 8 giugno 1948, affermava di non aver riconosciuto in quella mostratagli dal Priebke la lista formata dal Questore Caruso, come allegata agli atti del processo.
Sicché, secondo tale tesi, sarebbe ragionevole affermare che il Tunath, mentre non poteva modificare la lista dei detenuti del terzo braccio di Regina Coeli in quanto a disposizione del Comando tedesco (anche considerando che di tale lista era in possesso quanto meno il Priebke, incaricato del controllo all'atto dell'arrivo dei martiri alle Cave Ardeatine), contrariato dal ritardato invio della lista compilata dalla Questura di Roma e pressato dall'esigenza di effettuare l'ultimo trasporto dei prigionieri, abbia prelevato di propria iniziativa persone appena entrate nel carcere. Forse anche per una tragica fatalità, alcuni di costoro vennero confusi ed aggiunti ai nominativi della lista Caruso. Potrebbe inoltre rilevarsi come il Tunath non era comunque in possesso di tale lista poiché, come prima evidenziato, il Commissario Alianello, su disposizione del Caruso, aveva portato al Carcere due copie della lista: di queste una, controfirmata per ricevuta dal Tunath, era stata trattenuta dalla Direzione del carcere mentre l'altra rimaneva nelle mani dell'Alianello.
Non potrebbe allora escludersi che la lista consegnata al Priebke alle Cave Ardeatine da parte del Tunath non fosse quella compilata dal Caruso, bensì fosse un elenco meramente nominativo, e non anche numerico, redatto in maniera sommaria e drammaticamente comprendente anche le persone prelevate, in via autonoma, dallo stesso Tunath all'atto del loro arrivo a Regina Coeli, la qual cosa spiegherebbe perché il Kappler, nelle dichiarazioni sopra riportate, affermava di non riconoscere in quella a suo tempo mostratagli dal Priebke la lista formata dal Questore Caruso.
D'altra parte, secondo sempre tale opinione, non vi sarebbe stato plausibile motivo per il quale uccidere in esubero queste cinque persone, poiché le esigenze di segretezza che avevano indotto il Kappler a far prelevare da Regina Coeli i prigionieri con l'ingannevole intento di essere avviati ai campi di lavoro in Germania (si vedano in proposito le dichiarazioni rese dal teste Pellegrini all'udienza del 23 maggio 1997), e ciò anche al fine evidente di evitare possibili sollevazioni della popolazione romana, valevano solo fino alla effettuazione dell'eccidio.
Successivamente infatti alla sua perpetrazione, la logica stessa della "rappresaglia" voleva che di essa venisse a conoscenza l'intera città, tanto è vero che il 25 marzo 1944 il Comando tedesco trasmetteva agli organi di stampa un comunicato ufficiale sull'eccidio da pubblicarsi subito e con grande rilievo.
Affermazione, quest'ultima, che potrebbe trovare un ulteriore riscontro nella deposizione resa all'udienza del 5 giugno 1997 dal teste Cecconi Mario: questi ha infatti affermato che la mattina del 25 marzo 1944, dopo che un ragazzo che lo aveva accompagnato sul posto era già fuggito, veniva allontanato dal piazzale antistante le Cave Ardeatine proprio dal Priebke, mentre numerosi soldati tedeschi vi si esercitavano al fuoco.
Se davvero l'intento era quello di impedire qualsivoglia testimonianza sull'eccidio, non si comprende perché al Cecconi fu consentito di allontanarsi.
Tuttavia, a ben vedere, nessuno degli argomenti così elencati appare convincente.
In primo luogo, la circostanza, che pure può apparire verosimile, secondo la quale il Tunath, all'atto di prelevare dal Carcere di Regina Coeli i prigionieri della lista Caruso, e poiché nessuna delle due copie di tale lista gli era stata consegnata, avrebbe per proprio conto formato altro elenco solo nominativo e non anche numerico, in realtà non dimostra nulla poiché lascia del tutto impregiudicata la questione se il Priebke si sia accorto, e prima della loro fucilazione, che alle Cave Ardeatine erano stati condotti cinque prigionieri in più.
A parte il rilievo che forse sul luogo dell'eccidio non furono portate solo cinque persone in più (risulta infatti agli atti del processo Kappler che ivi era stato condotto il disertore austriaco Raider, riportato poi a Via Tasso in considerazione della sua nazionalità), e pur volendo pensare che il Tunath abbia consegnato al Priebke una lista meramente nominativa, è inverosimile che né il Tunath né il Priebke abbiano controllato che il numero dei prigionieri, per ultimo trasportati da Regina Coeli, almeno corrispondesse a quello indispensabile a colmare la differenza tra il numero dei martiri già trucidati ed il totale fissato dal Kappler.
Invero sia il Tunath che il Priebke necessariamente hanno provveduto ad effettuare la conta di tali persone, se non altro per verificare, il primo all'atto del prelevamento dal Carcere, il secondo al momento del loro arrivo alle Cave, che il numero non fosse inferiore al necessario.
Deve sicché ritenersi che vi sia stato un momento in cui il Priebke, quale affidatario delle liste, si è accorto che vi erano cinque prigionieri in più, momento in cui essi vennero collocati in disparte rispetto agli altri in attesa delle decisioni che il Kappler avrebbe adottato nei loro confronti. Ecco perché il Kofler, nella già citata deposizione, così affermava: "Quando arrivammo lì stava facendosi buio. All'arrivo alle Cave vidi un gruppo di cinque prigionieri riuniti nello spiazzo davanti all'entrata delle Cave. Vidi il tenente colonnello Kappler che parlava ai cinque prigionieri."
Ma allora queste cinque persone, come già ritenuto dalla sentenza Kappler del 1948, erano state già individuate e separate dalle altre, ancor prima che il Kofler sopraggiungesse alle Cave con l'ultimo trasporto dei prigionieri diretto dal Tunath. Il che induce a ritenere che tali persone erano state lì portate con precedenti convogli, magari perché tragicamente indotte in inganno dalla speranza di essere avviate ai campi di lavoro e quindi di comunque sottrarsi alla dura prigionia nelle Carceri tedesche.
La qual cosa ulteriormente rafforza il convincimento del Collegio che il Priebke si accorse subito che vi erano cinque prigionieri in più senza attendere, come poi sostenuto, di effettuare il giorno successivo all'eccidio il controllo per così dire ragionieristico e comparativo delle varie liste. Ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che cinque persone in più siano state condotte alle Cave Ardeatine dal Tunath ovvero ancor prima, resta che davvero inverosimile quanto drammatica coincidenza dovrebbe ritenersi quella secondo cui il Kappler, che si pretenderebbe ancora ignaro dell'errore numerico, si sarebbe soffermato a parlare (chissà di che cosa?) proprio con cinque prigionieri. Né si riuscirebbe altrimenti a comprendere perché proprio cinque prigionieri sarebbero stati messi in disparte rispetto agli altri, venendo comunque poi avviati alla morte, tanto più considerando che il barbaro quanto prolungato eccidio stava oramai avviandosi all'epilogo.
Non convince inoltre l'affermazione secondo la quale i tedeschi non avevano interesse ad eliminare pericolosi testimoni. Infatti, è vero che il giorno successivo alla "rappresaglia" il Comando germanico ne diffondeva la notizia, ma è altrettanto vero che il comunicato in questione si limitava ad affermare che, a seguito di un attentato di "comunisti badogliani", appartenenti a tale gruppo di resistenza erano stati fucilati. Nulla sicché si diceva sulla località in cui l'esecuzione era avvenuta né, tanto meno, si davano informazioni su chi vi avesse materialmente provveduto e con quali esatte modalità.
Non può dunque negarsi che il Kappler abbia ordinato al Priebke di far uccidere anche questi cinque prigionieri in più, così cedendo alla criminale tentazione di eliminare persone che, alla fine della guerra, li avrebbero con una testimonianza tanto diretta quanto precisa inchiodati alle loro responsabilità!
Conclusione questa che non può essere contraddetta dal rilievo che il teste Cecconi, lungi dall'essere anch'egli eliminato sul posto, era stato proprio dal Priebke allontanato dalle Cave Ardeatine. Infatti, se il Cecconi (che nella sua deposizione evidentemente confonde la data del 25 marzo 1944, giorno successivo all'eccidio, con quella del 24 marzo 1944) fosse stato eliminato lì per lì senza un apparente motivo, si sarebbe creato un ragionevole allarme nella popolazione delle zone limitrofe, certamente informata del fatto dal ragazzo che lo aveva accompagnato sul posto e che, per suo conto, era già riuscito a fuggire; la qual cosa, ovviamente, non avrebbe certo facilitato l'effettuazione dell'eccidio da parte dei tedeschi.
La volontaria esecuzione dei cinque prigionieri eccedenti il limite dei trecentotrenta risulta, infine, confermata dalle dichiarazioni rese dall'Hass all'udienza del 10 giugno 1996, nel corso del precedente giudizio. Questi ha infatti riferito che il Kappler in data 25 marzo 1944, e cioé il giorno successivo alla data dell'esecuzione, gli aveva confidato di aver fatto una grossa fesseria nel far fucilare le cinque persone in più: in particolare, come riferito dall'Hass, il Kappler gli aveva raccontato che per errore erano state condotte alle Cave Ardeatine non trecentotrenta bensì trecentotrentacinque persone, e poiché cinque persone in più alla fine c'erano, erano state passate per le armi.
La deposizione dell'Hass non può essere smentita affermando che egli non poteva aver percepito tutto quanto avvenuto alle Cave Ardeatine, non essendosi ivi trattenuto a lungo. Infatti, non solo va ricordato che l'Hass, per sua stessa ammissione, si trattenne sul luogo dell'eccidio dall'inizio delle esecuzioni sino al loro termine, ma va anche osservato che, pur ammettendo, ma per sola ipotesi, che l'Hass ivi si sia trattenuto per molto meno tempo, resta immutata la circostanza che egli, sul punto in esame, riferisce non già quanto da lui direttamente percepito, bensì quanto a lui confidato dal Kappler.
E' stato poi affermato che le dichiarazioni dell'Hass sarebbero prive dei riscontri probatori oggettivi indispensabili normativamente; argomento, questo, insussistente ove solo si collochino le affermazioni dell'Hass nell'intero contesto probatorio come sopra evidenziato».
Sulla base di tali argomentazioni il Tribunale giunge quindi ad affermare che «l'uccisione delle cinque persone eccedenti il numero dei trecentotrenta fu posta in essere con piena consapevolezza e che tale consapevolezza fu massima nel Priebke, quale ufficiale che, tenutario delle liste delle vittime e preposto alla formazione dei gruppi che di volta in volta venivano avviati a morte, direttamente rilevò l'eccedenza numerica».
1.1.6. Premesse tali ricostruzioni in punto di fatto, il Tribunale passa a considerare se relativamente alla posizione dei due imputati potesse operare la scriminante dell'adempimento di un dovere in forza dell'art. 40 c.p.m.p., norma abrogata nel 1978 ma evidentemente aplicabile ai fatti di causa. Sul punto, dopo aver premesso che l'ordine è da ritenersi manifestamente criminoso quando il tipo medio di persona è in grado di avvertirne il disvalore penale e aver riportato brani della Relazione ministeriale in cui si precisa che si può tuttavia prescindere dalla valutazione oggettiva della criminosità dell'ordine quando essa, anche se non manifesta, sia tuttavia investita della consapevolezza dell'agente, il Tribunale dichiara di ritenere che entrambi gli imputati eseguirono l'ordine impartito dal Kappler «indifferenti alla criminosità di esso». Quanto alla criminosità, si legge nella sentenza che essa «non deriva soltanto da singole particolari modalità dell'eccidio, dai criteri di inclusione tra i condannati di persone, alcune addirittura di età minore, non aventi nessuna colpa se non quella di abitare in una determinata zona di Roma o di appartenere alla Comunità ebraica, ovvero anche dalla assurda sproporzione rispetto ai militari tedeschi morti in Via Rasella; la criminosità è qui intrinseca al fatto stesso rispetto al quale, allora, quelle singole modalità esecutive si appalesano come suoi meri indici sintomatici, da cogliersi non già sul piano qualitativo della responsabilità penale bensì su quello della sua quantità».
Significativo al riguardo - sempre secondo l'opinione del Collegio - «quell'autentico rimbalzo di responsabilità che si verificò tra i vari Comandi militari tedeschi una volta che l'ordine di eseguire l'eccidio era giunto, tanto da indurre in particolare il maggiore Dobrick a rifiutare l'esecuzione dell'ordine, pur nella sua qualità di comandante il reparto direttamente colpito da quell'attentato, ancor prima di conoscerne le singole modalità esecutive ed adducendo spiegazioni che al Kappler parvero dei meri pretesti». Se ne ricava, per lo stesso giudice, che «gli imputati, per loro stessa ammissione, hanno ottemperato all'ordine di partecipare all'eccidio delle Cave Ardeatine non perché convinti della sua legittimità, ovvero perché non consapevoli della sua manifesta criminosità, ma solo perché preferirono anteporre il proprio personale interesse all'esecuzione di centinaia di innocenti».
Quanto all'ulteriore argomento secondo il quale l'eventuale disobbedienza degli imputati, in quanto priva della capacità di escludere la realizzazione dell'evento, sarebbe stata del tutto ininfluente, il Tribunale ha osservato che esso «è privo di fondatezza poiché il dovere di disobbedire all'ordine manifestamente criminoso scatta indipendentemente dal fatto che l'inferiore, disobbedendo, si ponga nelle condizioni di impedire che l'evento comunque si verifichi. E' evidente, infatti, che il singolo militare non deve obbedire all'ordine criminoso impartitogli, pur quando abbia la consapevolezza che altri sarà disponibile ad ottemperarvi. Diversamente opinando si dovrebbe affermare che, come nel caso di specie, ove un ordine illegittimo venga impartito a più militari, ciascuno di essi sarebbe chiamato ad opporvisi soltanto a condizione che si verifichi una sorta di disobbedienza collettiva».
Neppure può invocarsi, secondo la sentenza, un eventuale «stato di necessità». Si legge sul punto quanto segue. «Né il Priebke né l'Hass hanno ricevuto alcuna minaccia, tanto meno dal Kappler: il primo, il "tenente feroce", uno dei torturatori di Via Tasso, era del Kappler un collaboratore tra i più fidati e diretti, tanto da essere chiamato a svolgere alla Cave Ardeatine il compito, tutt'altro che marginale e secondario, di affidatario delle liste dei morituri; il secondo, Capo Sezione Spionaggio, era in evidente rapporto confidenziale con il Kappler tanto che questi, il giorno successivo all'eccidio, proprio a lui confida che era stata una "fesseria" l'aver fatto fucilare cinque persone in più.
D'altra parte, osserva il Collegio che l'insussistenza dell'esimente dello stato di necessità va considerata non soltanto con riguardo alla condotta tenuta dagli imputati alle Cave Ardeatine, ma anche sin da quando il Kappler tenne la riunione preparatoria dell'eccidio, verso le ore 12.30 del 24 marzo 1944.
Appare infatti ragionevole ritenere che già da tale momento (che concretizzava una situazione psicologicamente meno impegnativa per manifestare il rifiuto rispetto a quella di intuibile concitazione che si sarebbe verificata più tardi alle Cave Ardeatine) chi avesse avuto delle remore morali, ovvero anche delle perplessità, sul ruolo affidatogli, avrebbe potuto e dovuto manifestarle al proprio superiore.
Al limite del paradosso è, poi, l'affermazione secondo cui gli imputati si sarebbero sentiti minacciati dal capitano Schütz, il quale, sempre pronto ad esibire la collericità del proprio carattere, aveva detto che chi voleva disobbedire alle disposizioni del Kappler non doveva fare altro che schierarsi tra i fucilandi. Ma è appena il caso di notare come le affermazioni dello Schütz, per quanto collerico egli potesse essere, e pur volendo credere, ma sol per un momento, che esse fossero davvero indirizzate all'Hass o al Priebke e non già ai sottufficiali ed alla truppa, non potevano certo intimidire né il pari-grado Priebke né l'Hass, addirittura a lui superiore in grado.
Del tutto irragionevole sarebbe infine affermare che gli imputati si sarebbero sentiti minacciati, per così dire, per implicito dalla struttura in sé delle SS, cui loro stessi avevano volontariamente aderito e nell'àmbito della quale avevano raggiunto livelli di così alta responsabilità.
Solo per completezza espositiva deve aggiungersi, infine, che ad impedire in ogni modo l'applicabilità dell'esimente dello stato di necessità si frapporrebbe, ed in modo insuperabile, l'ulteriore ostacolo dell'evidente sproporzione tra il pericolo in ipotesi incombente sugli imputati ed il fatto che essi sarebbero stati costretti a commettere».
1.1.7. Sulla base di tutto quanto precede il Tribunale è giunto a ravvisare la responsabilità degli imputati in relazione agli artt. 13 e185 c.p.m.g. Escluso, infatti, anche richiamando le conclusioni della sentenza del 1948 che l'eccidio delle Cave Ardeatine sia avvenuto in presenza della «necessità bellica» o comunque di un altro «giustificato motivo» validamente apprezzabile in base al diritto internazionale bellico, il Tribunale ha confermato che tale eccidio rientra nella previsione della citata norma incriminatrice.
Quanto alla specifica posizione dei due imputati si osserva quanto segue. « Prendendo in primo luogo in considerazione la posizione del Priebke, non può dubitarsi che questi abbia con piena coscienza e volontà fornito il proprio contributo causale all'eccidio delle Cave Ardeatine.
Come già rilevato, egli ha partecipato al reato non già in fase meramente esecutiva ma sin dal momento organizzativo. In proposito valgano, al di là di ogni altra considerazione, le parole pronunciate dall'imputato medesimo in data 28 agosto 1946, nel corso dell'interrogatorio svolto nel campo di prigionia alleato di Afragola: "Esaminammo durante tutta la notte gli archivi, ma non potemmo trovare un numero sufficiente di persone per raggiungere il numero richiesto per l'esecuzione". Ed ancora, a provare al di là di qualsivoglia dubbio che il Priebke ha partecipato alle esecuzioni dall'inizio alla fine, si richiama altra parte della medesima deposizione: "Entrai nella Cava con il secondo gruppo, uccisi un uomo con un mitra italiano; verso la fine ne uccisi un altro con lo stesso mitra. Le esecuzioni finirono quando già calava la sera. Nel corso di quella stessa sera alcuni genieri tedeschi vennero alle Cave dopo le fucilazioni e fecero delle esplosioni".
Della piena utilizzabilità dell'atto istruttorio ora richiamato il Collegio non dubita nonostante le perplessità difensivamente espresse, perché, se si ritiene che quelle dichiarazioni furono fatte dal Priebke come prigioniero di guerra e dunque al di fuori di un procedimento penale, esse non concretizzano altro che un documento, come tale acquisibile ex artt. 234 e 237 c.p.p.; se invece si ritiene che esse furono fatte in sede giudiziaria, l'acquisibilità discende dall'art. 78, comma 1, del D.L.G. 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) avuto anche riguardo all'assoluta peculiarità della situazione in cui l'atto venne formato (in ordine alla valenza di atti dell'autorità straniera, v. Cass., Sez. I, 23 giugno 1993, causa Nicosia ed altro).
E' appena il caso di dire che, comprensibilmente, il Priebke in altre successive dichiarazioni ha tentato di sminuire la sua partecipazione all'eccidio, ma il quadro della sua responsabilità è con chiarezza delineato, ed inutili sono gli sforzi difensivi per metterlo in ombra.
Sforzi che si sono spinti, non può non notarsi, addirittura ad affermare che l'imputato non si sarebbe accorto che nelle liste dei prigionieri vi erano appartenenti alla Comunità ebraica. E' sufficiente scorrere l'elenco dei caduti e citarne solo alcuni (Anticoli, Astrologo, Coen, Di Castro, Di Consiglio, Di Nepi, Di Porto, Funaro, Limentani, Moscati, Piattelli, Piperno, Sermoneta, Sonnino), per concludere che qualsivoglia appartenente alle S.S. avrebbe colto immediatamente che si trattava di ebrei, tanto più che sol per un momento si ricordi come alla data del 24 marzo 1944 erano già da tempo iniziate le deportazioni in Germania per l'attuazione della "soluzione finale" della cosiddetta questione ebraica.
Come sopra detto, il Priebke deve, a pieno titolo, rispondere della morte non solo di trecentotrenta persone ma anche delle cinque che, deliberatamente, vennero uccise, a seguito dell'ordine, impartitogli dal Kappler, di eliminare testimoni tanto pericolosi.
Con piena coscienza e volontà ha, a sua volta, partecipato all'eccidio anche il coimputato Hass. Invero, ferme le più volte delineate differenze ravvisabili nel ruolo da questi svolto rispetto a quello del Priebke, non può negarsi che anche l'Hass fosse pienamente consapevole della inaudita criminosità di quanto doveva avvenire alle Cave Ardeatine. Pur a voler negare ogni sua partecipazione alla fase di preparazione dell'eccidio, non può viceversa dubitarsi che l'Hass abbia aderito a dare, conformemente a quanto disposto dal Kappler, l'esempio alla truppa nella sua esecuzione: a tal punto appariva l'enormità di quanto stava per avvenire che si dovette ritenere necessario che ogni ufficiale, ivi compreso l'Hass, che pure dipendeva dal Kappler per esigenze, per così dire, meramente amministrative, prendesse parte personalmente all'uccisione dei prigionieri, onde evitare qualsivoglia titubanza o sbandamento tra i componenti il tragico plotone d'esecuzione.
In tal modo l'Hass non solo è da ritenersi responsabile della morte dei singoli prigionieri da lui personalmente uccisi, ma anche di tutte le altre vittime delle Cave Ardeatine, alla cui esecuzione egli ha apportato un contributo causale idoneo ad essere valutato alla luce dell'art. 110 c.p.»
Dopo aver citato alcune sentenze della Corte di cassazione relative alla partecipazione morale al reato, il Tribunale giunge così a ritenere «che, per le modalità e le finalità con le quali parteciparono all'eccidio, e a prescindere, ovviamente, dalla specifica posizione di chi, come lo Schütz od il Priebke, si attivò in maniera peculiare, gli ufficiali intervenuti assunsero il ruolo di reciproci concorrenti morali.
In questo senso, stante la sostanziale unitarietà della condotta criminosa oggetto dell'accordo ed a prescindere da chi materialmente provvide all'esecuzione, la responsabilità dell'Hass sussiste anche nei confronti delle cinque persone che, secondo la ricostruzione del Collegio, furono eliminate perché testimoni pericolosi.
Risulta, infatti, che nella riunione propedeutica tenutasi verso le ore 12.30-13 nel suo ufficio, il Kappler rappresentò, tra l'altro, la necessità che il luogo dell'esecuzione fosse una cava tale da poterne chiudere gli ingressi e renderla una camera sepolcrale.
Al di là delle specifiche parole che potranno essere state usate dal Kappler, quell'indicazione aveva un significato chiaro: non si dovevano lasciare tracce.
Su queste basi, accettare di partecipare all'eccidio voleva dire, necessariamente, mettere nel conto la possibilità che, per garantire nell'immediato la segretezza dell'operazione, fossero eliminati occasionali testimoni oculari; soltanto in tal modo, infatti, non si sarebbero messe in pericolo quelle esigenze primarie che avevano addirittura condizionato la scelta del luogo dell'esecuzione».
1.1.8. Quanto alla ricorrenza delle circostanze, il Tribunale ha dapprima considerato l'aggravante della premeditazione. Si premette in sentenza che per la sussistenza della stessa è indispensabile uno spazio temporale tra l'ideazione e l'esecuzione del proposito criminoso, durante il quale esso si rafforza e si consolida, anche e soprattutto perché vengano studiate le modalità e predisposti i mezzi esecutivi del reato. Si afferma quindi che, per quanto attiene all'imputato Hass, se risulta provato che questi ha partecipato all'esecuzione delle Cave Ardeatine, non altrettanto può dirsi in ordine alla prova che il medesimo sia stato chiamato a predisporre quanto necessario per l'esecuzione del barbaro eccidio, escludendosi quindi nei suoi confronti la ricorrenza dell'elemento c.d. ideologico della premeditazione.
Quanto alla posizione del Priebke, a diversa conclusione perviene il Tribunale. A tal riguardo, si legge in sentenza: «è con sicurezza emerso che il Priebke ebbe subito notizia che era stata impartita la disposizione di uccidere dieci italiani per ciascuno dei militari tedeschi caduti in Via Rasella. Conclusione, questa, a cui il Tribunale perviene non solo in via meramente ipotetica, basandosi cioè sulla considerazione, peraltro non inverosimile sotto il profilo logico, che dato l'incarico rivestito dal Priebke nel Comando militare tedesco di Via Tasso, egli non poteva non sapere quanto il Kappler, suo diretto superiore, aveva deciso, ma anche sulla base di dati probatori certi tra cui in questa sede appare di rilievo la deposizione resa all'udienza del 5 giugno 1997 dal teste Cecconi Mario.
Infatti, secondo tale testimonianza, proprio il Priebke, accompagnato da altro ufficiale, ovviamente non conosciuto dal Cecconi, effettuò alle Cave Ardeatine il preliminare sopralluogo indispensabile per la preparazione dell'eccidio.
Risulta poi inconfutabilmente provato che il Priebke, quale suo stretto collaboratore, cooperò con il Kappler nella predisposizione delle liste dei martiri da avviare all'eccidio. Sul punto può richiamarsi quanto lapidariamente sostenuto dalla sentenza del 1948 (fg. 17): "Nella notte l'imputato, con l'aiuto dei suoi collaboratori, esaminava i fascicoli delle persone considerate 'todeswurdige' sulla base dei precedenti accordi".
Sicché per quanto riguarda il Priebke appare concretato non solo l'elemento cronologico del trascorrere tra l'ideazione e l'esecuzione del reato di un lasso di tempo più o meno breve ma comunque apprezzabile al fine di poter l'agente riflettere (Cass. Sez. I, 1991, n. 188000), ma anche il dato ideologico poiché il Priebke, al contrario del coimputato Hass, ha partecipato anche a studiare le modalità ed a predisporre i mezzi del reato».
Sempre per il Tribunale, per escludere la ricorrenza dell'aggravante in argomento a carico del Priebke, non può eccepirsi che l'ordine di eseguire la rappresaglia venne impartito al Kappler non subito dopo l'attentato di Via Rasella bensì poche ore prima dell'effettivo verificarsi dell'eccidio delle Cave Ardeatine, e precisamente quando il maggiore Dobrick rifiutò di prendervi parte, per essere risultato che il Kappler, avvalendosi dei suoi più stretti collaboratori, tra i quali sicuramente il Priebke, iniziò a preparare quanto necessario per la materiale effettuazione della rappresaglia ancor prima di sapere chi avrebbe successivamente dovuto eseguirla.
Anzi, da tale rilievo il Collegio ha tratto ulteriori spunti di conferma della sussistenza della premeditazione, giacché «aver preparato per altri la barbara esecuzione ed averla poi personalmente eseguita non può non concretare infatti quel rafforzarsi e consolidarsi dell'intento criminoso nello spazio temporale tra l'ideazione e l'esecuzione del reato che, come in premessa ricordato, è ritenuto indispensabile ai sensi dell'art. 577, comma 1, n. 3 c.p. ».
Si rileva, inoltre, in sentenza che «la ritenuta sussistenza dell'aggravante in esame non può, infine, essere contraddetta dal rilievo che il Tribunale supremo militare, nella citata sentenza del 25 ottobre 1952, escluse a carico del Kappler la configurabilità della premeditazione. Invero, tale valutazione va necessariamente inquadrata nella prospettiva, radicalmente diversa rispetto a quella cui questo Collegio ha ritenuto di pervenire, della affermazione della responsabilità penale del Kappler limitatamente all'uccisione di quindici delle vittime: coerentemente allora si escluse l'aggravante ritenendo che l'imputato aveva sì disposto di passare per le armi dieci persone in più rispetto al numero in origine ordinatogli, ma in momento così prossimo all'esecuzione da dover necessariamente escludere - quantomeno - l'elemento cronologico della premeditazione».
La sentenza torna, successivamente, sulla posizione dell'Hass, affermando testualmente quanto segue. «Tuttavia anche l'aggravante della premeditazione, avente ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 2 c.p. natura soggettiva in quanto attinente all'intensità del dolo (Cass., Sez. I, 1994, n. 199812), è da ascriversi all'Hass in virtù dell'art. 118 c.p. E' vero che tale norma oggi stabilisce, a seguito della modifica operata dall'art. 3 legge 7 febbraio 1990, n. 19, che le circostanze aggravanti o diminuenti le pene concernenti l'intensità del dolo "sono valutate soltanto riguardo alle persone cui si riferiscono". Ma è altrettanto vero che ai fatti di causa, poiché commessi durante lo stato di guerra, va applicato in forza dell'art. 23 c.p.m.g. - come diffusamente si dirà nel capitolo 11 - il trattamento sanzionatorio stabilito dalla legge penale militare di guerra, ancorché la legge penale comune contenga disposizioni più favorevoli per il reo.
Di conseguenza l'art. 118 c.p. deve trovare applicazione non già nel testo attualmente vigente bensì nella sua formulazione originaria, secondo la quale le circostanze soggettive si applicano non soltanto alle persone cui si riferiscono ma anche ai concorrenti nel reato quando siano servite ad agevolarne la partecipazione criminosa.
Orbene, non è dato dubitare che la predisposizione delle modalità esecutive del reato realizzata dal Priebke (così come da altri) ha certamente agevolato la commissione del reato da parte dell'Hass, nei confronti del quale, pertanto, l'aggravante in questione deve trovare estensivamente applicazione».
1.1.9. Il giudice di primo grado passa, quindi, a considerare la ricorrenza della aggravante, pure contestata agli imputati, di aver agito con crudeltà verso le persone (art. 61, n. 4, c.p.). Sul rilievo che nell'eccidio delle Cave Ardeatine si sia manifestata una crudeltà con un grado di inaudita gravità, il Tribunale si è direttamente riportato agli ulteriori seguenti brani della sentenza del 1948 a carico del Kappler.
«E' risultato, difatti, che le vittime in genere ed a maggior ragione quelle delle quali trattasi (giunte alle Cave Ardeatine dal carcere di Regina Coeli quando erano state fucilate oltre cento persone giunte dal carcere di Via Tasso) erano trattenute ad attendere, con le mani legate dietro la schiena, sul piazzale all'imboccatura della cava, da dove frammiste con le detonazioni, esse udivano le ultime angosciose grida delle vittime che le avevano precedute. Esse, poi, entrate nella cava per essere fucilate, scorgevano, alla luce delle torce, i numerosi cadaveri ammucchiati delle vittime precedenti (dich. Amonn). Infine, esse venivano fatte salire sui cadaveri accatastati e qui costretti ad inginocchiarsi con la testa reclinata in avanti per essere colpite a morte, come si è accertato dalle dichiarazioni dei medici legali Prof. Ascarelli e Dott. Carella, i quali basano le loro asserzioni su un ragionamento che al Collegio sembra pienamente convincente, e cioè se i cadaveri delle vittime furono trovati ammucchiati fino ad un'altezza di un metro circa, con le gambe genuflesse, così come esse erano nel momento della fucilazione, significa che caddero in quel posto poiché, se presi ed accostati subito dopo la fucilazione come affermano gli imputati, si sarebbero necessariamente stirati nelle gambe dal momento che non avevano potuto ancora acquistare la rigidità cadaverica».
Ciò posto, e con riguardo alla posizione del Priebke, non potrebbe allora dirsi - sempre per il Tribunale - che le modalità crudeli di esecuzione del reato non possono essere invocate a suo carico, quale esecutore di ordini da altri impartiti, per riguardare, invece, esse solo la sfera di responsabilità penale di chi quelle direttive ebbe ad emanare. Infatti: «in primo luogo, l'ordine di eseguire l'eccidio delle Cave Ardeatine non ha trovato nel Priebke (così come nell'Hass) un mero esecutore, bensì esso è stato recepito in spirito di piena condivisione; in secondo luogo, non può non rilevarsi come l'ordine superiormente impartito non si spingeva fino a dettagliarne le specifiche modalità esecutive, le quali pertanto vennero programmate ed eseguite dall'imputato».
Con riguardo alla posizione dell'Hass, rileva, invece, il Tribunale che, pur avendo egli limitato la sua partecipazione al reato alla sola fase esecutiva, ha, per sua stessa ammissione, ucciso almeno due martiri delle Cave Ardeatine, di cui uno nella fase iniziale dell'eccidio e l'altro nella fase terminale, e quindi che egli è stato lì presente ininterrottamente dall'inizio alla fine. In tale prolungato periodo di tempo è evidente, allora, che l'Hass ha percepito, e per intero condiviso, tutte quelle modalità esecutive e realizzative dell'eccidio sopra contestate al coimputato Priebke, onde l'aggravante in esame appare sussistente - ad avviso del giudice - anche nei di lui confronti.
1.1.10. Quanto alle circostanze attenuanti, il Tribunale ha ravvisato in capo ad entrambi gli imputati la sussistenza di quelle di cui all'art. 59, n. 1, c.p.m.p., relativa all'inferiore che è stato determinato dal superiore a commettere il reato. Premesso che ricorre tale circostanza non quando altri abbia provocato nel reo la semplice idea del reato, ma solo quando l'attività del superiore sia riuscita a formare nella mente dell'inferiore il proposito criminoso, il Tribunale ha affermato che entrambi gli imputati hanno sicuramente partecipato all'eccidio solo per adempiere all'ordine impartito da un superiore dotato come il Kappler di un'indubbia capacità carismatica, ordine che, pur se delittuosamente impartito, li ha determinati a concorrere nel reato. A tale riguardo, così leggesi in sentenza: «è di tutta evidenza che l'Hass ha preso parte all'eccidio certo non perché animato da una entusiastica volontà di protagonismo, ma solo perché il Kappler aveva dato disposizioni che tutti gli ufficiali, e quindi anche l'Hass, concorressero alla strage per dare l'esempio alla truppa onde evitare in essa esitazioni o sbandamenti. Alla stessa conclusione è possibile pervenire anche per quanto riguarda il Priebke. E' vero che il ruolo da questi svolto nell'eccidio delle Cave Ardeatine è ben diverso da quello rimproverabile all'Hass: il Priebke, infatti, non si limitò certo, come altri ufficiali tedeschi, ad uccidere due prigionieri sol per dare l'esempio, ma collaborò attivamente, come prima ricordato, a tutte le fasi tragicamente organizzative della strage. Ma ai fini dell'attenuante in esame deve osservarsi che il Priebke ha partecipato al reato con modalità diverse rispetto a quelle dell'Hass in conseguenza delle funzioni da lui svolte all'interno del Comando militare tedesco di Via Tasso. Sicché tutta l'attività di partecipazione del Priebke nell'eccidio è stata pur sempre determinata in lui dagli ordini ricevuti dal Kappler. Non rileva al fine di escludere l'attenuante "de qua" cioè la considerazione che, come peraltro appare ovvio, il Kappler una volta che era stato dato proprio a lui il compito di preparare l'eccidio e poi anche di eseguirlo a ragione del rifiuto opposto da altri Comandi, abbia chiamato i suoi più diretti collaboratori (e tra essi il Priebke) a partecipare alla sua organizzazione, disponendo che tutti gli altri ufficiali (e tra essi l'Hass) si "limitassero" ad uccidere due prigionieri. Del resto, non può non rilevarsi che l'art. 8 dello Statuto del Tribunale Internazionale di Norimberga stabiliva: "Il fatto che l'imputato abbia agito in ossequio all'ordine del suo governo o di un superiore non lo esime da responsabilità ma può essere preso in considerazione come circostanza attenuante, se il Tribunale accerta che ciò sia richiesto da motivi di giustizia"».
1.1.11. Per quanto concerne l'attenuante prevista dall'art. 59, n. 2 c.p.m.p. a favore del militare che ha prestato opera di minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, il Tribunale rileva preliminarmente che né l'aggravante di aver concorso nel reato con più di cinque persone, né quella di aver concorso con un inferiore, pur sussistendo entrambe, risultano contestate all'imputato Hass, sicché non opera la preclusione rispetto all'applicabilità dell'attenuante in parola prevista nello stesso art. 59, n.2, c.p.m.p. In particolare, la dizione contenuta nel capo d'imputazione "in concorso con Kappler Herbert ed altri militari tedeschi" non può assolutamente intendersi - ad avviso del Tribunale - quale contestazione dell'aggravante di cui all'art. 112, comma 1 c.p., «assolvendo essa alla sola funzione di consentire la contestazione in forma concorsuale di un reato a plurisoggettività eventuale». Ciò posto e passando al merito, il giudice così ha motivato sul punto dell'applicazione dell'attenuante: «risulta evidente come essa, assolutamente non invocabile a favore dell'imputato Priebke, possa viceversa operare a diminuire la responsabilità del coimputato Hass. Invero, come più volte osservato, mentre il Priebke ha partecipato all'eccidio delle Cave Ardeatine sin dall'inizio della sua fase organizzativa, caratterizzando con la sua condotta criminosa il reato a lui ascritto, ben diverso è stato il ruolo svolto dall'Hass chiamato, su ordine del Kappler, ad uccidere come altri ufficiali tedeschi due dei trecentotrentacinque martiri, senza dover in alcun altro modo partecipare alla realizzazione dell'evento criminoso».
1.1.12. Quanto alle circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., il Tribunale ha premesso che l'ultrattività della legge penale militare di guerra non osta, in linea di principio, alla loro applicabilità al caso di specie. «Infatti - si legge in sentenza - esse furono introdotte con il d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288, e dunque nella vigenza della legge penale militare di guerra, la cui applicazione cessò soltanto in data 15 aprile 1946 in virtù dell'art. 1 del d.lgs.lgt. 21 marzo 1946, n. 144. Stante la complementarità tra legge penale militare di guerra e legge penale comune, e poiché l'art. 23 c.p.m.g. fa genericamente riferimento alla legge penale militare di guerra, e non già a quella (come integrata dalla legge penale comune) vigente al momento del commesso reato, è fuor di dubbio che le attenuanti in questione possono essere riconosciute anche per reati previsti dal c.p.m.g. e posti in essere prima dell'entrata in vigore del d.lgs.lgt. 288/44». Rilevato, altresì, che la concessione delle attenuanti in questione non è per ciò stesso impedita dalla elevata gravità del reato ascritto e valutando il parametro della capacità a delinquere, il Tribunale ha osservato che, per quanto attiene al Priebke, l'esame della sua condotta antecedente al reato indurrebbe al diniego dell'attenuante in questione, stante il ruolo svolto dall'imputato all'interno del Comando tedesco di via Tasso, e proprio per doversi avere riguardo agli interrogatori da lui ivi tenuti con largo uso di torture ed altre violenze sia fisiche che morali (ciò che induce a ritenere non immune da rilievi critici la sua vita antecedente al reato); mentre si può giungere a opposta conclusione per quanto riguarda l'Hass, del quale non è risultata in alcun modo la partecipazione all'attività, autenticamente criminosa, che si teneva in Via Tasso ed essendo, anzi, risultato il contributo fornito dall'imputato alla liberazione del prof. Giuliano Vassalli, come da questi personalmente riferito. Le attenuanti in esame, peraltro, sono tuttavia apparse concedibili, oltre che all'Hass, anche al Priebke, sotto il profilo dei motivi a delinquere, essendosi quest'ultimo indotto al reato non per rispondere ad una sorta di entusiastico quanto delittuoso protagonismo, ma solo perché chiamato ad assolvere un compito nell'ambito delle sue funzioni. Quanto, poi, alla condotta susseguente al reato, rileva il Tribunale che è indubitabile che dopo la fine della guerra non risultano condotte criminose ascrivibili al Priebke come all'Hass; e tanto meno può evocarsi a sfavore di quest'ultimo la militanza nei servizi segreti statunitensi e poi italiani, essendo di tutta evidenza che tali organismi informativi costituiscono parte della più complessiva struttura statale, onde sarebbe del tutto arbitrario trarre elementi di sfavore dalla avvenuta semplice partecipazione ad essi. Si rileva, inoltre e sotto il profilo del comportamento processuale tenuto, che, pur essendo evidente che entrambi gli imputati si sono sottratti all'esame dibattimentale, ciò di per sé non osta alla concedibilità delle attenuanti generiche (v. per es., Cass. Sez. IV, 22 febbraio 1996, c. Fichera), mentre del resto nelle dichiarazioni rispettivamente rese nelle fasi precedenti al dibattimento nonché nei memoriali prodotti dagli imputati, essi hanno ammesso di aver personalmente cagionato la morte di due prigionieri, pur se in un quadro complessivo volto, in un certo qual modo, a comprensibilmente a sminuire i loro rispettivi ruoli.
Infine, sempre a tale riguardo, rileva il Tribunale che entrambi gli imputati paiono meritevoli delle attenuanti generiche anche sotto l'ulteriore profilo della valutazione delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, di cui all'art. 133 c.p.. Invero, il Priebke, prima del suo arresto in Argentina, avvenuto nell'anno 1994, risulta aver tenuto una condotta di vita del tutto normale; mentre, successivamente alla evasione dal campo di prigionia anglo-americano di Afragola, ha, per cinquanta anni, vissuto senza mai nascondere l'identità sua e dei suoi familiari e viaggiando con regolare passaporto, nell'evidente convinzione di non essere più perseguibile. Quanto all'imputato Hass, questi risulta aver semplicemente assecondato nel lungo dopoguerra la sua propensione a militare nei servizi informativi segreti, così venendo da essi fornito di un nominativo di copertura.
Oltre a ciò il Tribunale osserva che anche l'età avanzatissima degli imputati, quale condizione di vita individuale, debba far ritenere ormai affievolita la loro capacità a delinquere, avuto riguardo al tempo assai risalente del commesso reato e risultando confortato un siffatto rilievo dalle disposizioni contenute nel vigente ordinamento da cui si desume una particolare attenzione all'età elevata dell'indagato o del condannato, quando si tratta di restrizione in carcere (art. 275, comma 4, c.p.p.; art. 47 ter comma 1, n. 3 legge 26 luglio 1975, n. 354).
Aggiunge da ultimo la sentenza che «l'art. 133, comma 1, n. 1 c.p. individua anche nel tempo dell'azione criminosa un elemento sintomatico della gravità del reato, implicitamente attestando che una data risalente di commissione del reato sfuma necessariamente la rilevanza criminosa di ogni fatto per quanto, come quello di specie, efferato esso sia stato», conformemente alla "ratio" ispiratrice della norma in tema di misure cautelari (art. 292, comma 2, c.p.p., come sostituito dall'art. 9, comma 1, legge 8 agosto 1995, n. 332).
In conclusione, per tutte le considerazioni sopra svolte, entrambi gli imputati appaiono al Collegio meritevoli delle attenuanti generiche previste dall'art. 62 bis c.p.
1.1.13. La rilevata sussistenza del concorso tra circostanze attenuanti e circostanze aggravanti che comportano una pena di specie diversa impone, quindi, al Tribunale di accertare il regime da applicare nella fattispecie, dato che con l'art. 6 del d.l. 11 aprile 1974, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220 è stato modificato il meccanismo originariamente previsto dall'art. 69, comma 4 c.p. e vigente all'epoca dello stato di guerra. Il parametro alla stregua del quale risolvere tale problema di successione di leggi penali viene così individuato nell'art. 23 c.p.m.g., il quale, sotto la rubrica «ultrattività della legge penale militare di guerra», dispone che «per i reati preveduti dalla legge penale militare di guerra, commessi durante lo stato di guerra, si applicano sempre le sanzioni penali stabilite dalla legge suindicata, sebbene il procedimento penale sia iniziato dopo la cessazione dello stato di guerra, e ancorché la legge penale militare di pace o la legge penale comune non preveda il fatto come reato o contenga disposizioni più favorevoli per il reo».
Al riguardo si ritiene di non dover adottare un'interpretazione restrittiva della locuzione «sanzioni penali», conseguentemente limitando alle sole pene edittali stabilite dalla legge penale militare di guerra il principio di ultrattività posto dalla norma, bensì che nella nozione di «sanzioni penali stabilite dalla legge penale militare di guerra» deve essere ricompreso anche il regime di valutazione delle circostanze, quale elemento normativo funzionale, sia in concreto che in astratto, alla determinazione in termini quantitativi della sanzione del singolo reato; e ciò non soltanto perché le circostanze, venendo ad integrare il precetto primario, assumono «una funzione imprescindibile ai fini di determinare la modificazione della sanzione tipica» ma in quanto l'art. 23 c.p.m.g., fa esplicito ed esclusivo riferimento ai «reati preveduti dalla legge penale militare di guerra, commessi durante lo stato di guerra» e, pertanto, non anche a quelli commessi nei casi in cui la legge penale militare di guerra è applicata in tempo di pace (v. artt. 5, 8, 9 e 10 c.p.m.g.), sicché un'interpretazione che limitasse l'ambito di applicazione della norma speciale alle sole pene edittali previste dal codice bellico non solo renderebbe quella stessa disposizione "inutiliter data" ma addirittura incomprensibile, perché verrebbe a porre una deroga - con riferimento ai reati previsti dal c.p.m.g. e commessi in tempo di pace - in realtà poi riassorbita con la disposizione comune di cui all'art. 2. c.p. concernente le leggi eccezionali.
Simile rilievo induce il Tribunale a individuare la funzione che assume in concreto l'art. 23 in quella di assicurare che i delitti bellici posti in essere durante lo stato di guerra siano puniti sempre in base al sistema sanzionatorio previsto dalla legge penale militare di guerra vigente al momento del commesso reato, fatte salve, ovviamente, le modifiche eventualmente intervenute prima della cessazione dello stato di guerra medesimo. «Soltanto in tal modo, infatti, - si legge in sentenza - da un lato si garantisce effettivamente, stante il rapporto di complementarità tra legge penale militare di guerra, legge penale militare di pace e legge penale comune (artt. 19 c.p.m.p. e 16 c.p.), quel principio di ultrattività -"basato su di una suprema necessità di ordine politico-legislativo ed in piena armonia col carattere personale e permanente delle leggi militari belliche (Cass. Sez. un., 28 gennaio 1956, c. Tassoli) - che l'art. 23 c.p.m.g. dovrebbe codificare e, dall'altro, assume un senso l'esclusione posta per i reati previsti dal c.p.m.g. e commessi in tempo di pace, per i quali, comprensibilmente, il principio di ultrattività riguarderebbe soltanto la norma incriminatrice, in base ai principi generali di cui all' art. 2 c.p.».
A supporto di tale interpretazione il Tribunale ha reca: la considerazione generale per la quale il principio di ultrattività tende ad assicurare proprio l'omogeneità dei trattamenti sanzionatori; il riferimento contenuto nell'art. 23 «a disposizioni più favorevoli per il reo» più ampio di quello relativo alle sole le pene edittali; ed i lavori preparatori del codice da cui emerge che il legislatore, nel momento in cui poneva l'art. 23, aveva ben presenti proprio gli aspetti sanzionatori connessi ai reati circostanziati, riferendo di una vicenda interpretativa relativa all'aggravante del tempo di guerra per i reati commessi in tale periodo, ma giudicati dopo la cessazione dello stato di guerra.
Accertato per tali argomentazioni che l'art. 23 c.p.m.g. si riferisce all'intera disciplina (e dunque anche a quella concernente le circostanze del reato) stabilita dalla legge penale militare di guerra ed avente effetti sulla sanzione del singolo reato militare, il Tribunale rileva come nel codice penale militare di guerra siano rinvenibili anche apposite disposizioni, in materia di concorso di circostanze, meramente recettive della normativa comune (artt. 19 e 52 c.p.m.p.) e dalle quali si ricava che la legge penale militare di guerra vigente all'epoca dei fatti di causa stabiliva l'applicabilità degli artt. 63 e 69 c.p. per disciplinare il concorso tra circostanze aggravanti ed attenuanti, dovendosi così escludere il giudizio di comparazione, a fronte di aggravanti comportanti una pena di specie diversa.
A contrario, e sempre per il Tribunale, non può riferirsi anche alla materia della legge penale militare di guerra quanto dalla Corte Costituzionale precisato in ordine all'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, che stabilisce la cosiddetta "ultrattività" delle norme penali tributarie. «E' ben vero, infatti, che il giudice delle leggi, con la sentenza 6/78, ha precisato che con quella norma è stato stabilito il principio "tempus regit actum" in relazione alle sole disposizioni penali delle leggi finanziarie relative ai tributi dello Stato e non anche a quelle del primo libro del codice penale che le integrano, ma è appena il caso di osservare che mentre i reati tributari costituiscono una mera legislazione speciale (per cui, come da tempo evidenziato dalla dottrina anche sulla base dell'esegesi del dato normativo, il citato art. 20 l. 4/29 può riguardare soltanto le leggi concernenti i singoli tributi dello Stato), la legge penale militare di guerra è legge eccezionale, in quanto tale dotata di autonomia funzionale e di propria organicità, al di là della tecnica di redazione in concreto adottata dal legislatore». Ciò significa, quindi, per lo stesso giudice, «che l'art. 23 c.p.m.g e l'art. 20 l. 4/29 pongono il principio di ultrattività nell'ambito di due realtà normative profondamente diverse per presupposti, finalità e natura, per cui non è possibile estendere al primo le precisazioni fatte dalla Corte Costituzionale in ordine alla valenza del secondo».
Il Tribunale precisa, poi, che le suesposte considerazioni in diritto, in base alle quali nel caso di specie deve senz'altro procedersi all'applicazione dell'art. 69, comma 4, c.p. previgente, assorbono, un ulteriore profilo che pure, in concreto, condurrebbe allo stesso risultato, e cioè che, qualora dovesse, invece, procedersi al giudizio di comparazione tra le circostanze aggravanti ed attenuanti ritenute nel presente giudizio, le prime non potrebbero che essere valutate prevalenti, essendo esse entrambe talmente significative da comportare una pena di specie diversa (e addirittura la pena detentiva perpetua) a fronte di circostanze attenuanti che sono concepite dal legislatore o come facoltative (quelle di cui all'art. 59 c.p.m.p.) o come discrezionali (quella di cui all'art. 62 bis c.p.) e, dunque, con una valenza oggettivamente minore ai fini della caratterizzazione del fatto criminoso. Su queste basi, conclude il Tribunale che, a tutto concedere in linea teorica, la precedente normativa andrebbe comunque applicata per connotarsi come più favorevole per l'imputato; il giudizio di comparazione successivamente introdotto precluderebbe in concreto, infatti, (dovendosi dichiarare prevalenti le aggravanti) il meccanismo di riduzione della pena detentiva massima previsto dall'art. 65 c.p.
1.1.14. La sussistenza della circostanza aggravante indicata nell'art. 61, n.4 c.p. e di quella della premeditazione comporta, ai sensi dell'art. 577, comma 1, nn. 3 e 4 c.p., la punibilità con l'ergastolo del reato ascritto e, per ciò stesso, secondo il Tribunale, la sua imprescrittibilità stante l'accertata applicabilità nel caso di specie, ex art. 23 c.p.m.g., dell'art. 69 c.p. nella formulazione antecedente alla novella del 1974.
Al riguardo, osserva il Tribunale che nel concetto di reati punibili con l'ergastolo, ai sensi e per gli effetti dell'art. 157, comma 1, c.p., devono essere ricompresi non soltanto quelli per i quali la pena perpetua è prevista come pena edittale, ma anche quelli, come il delitto contestato agli imputati, per i quali la punibilità in astratto con l'ergastolo deriva dalla sussistenza di circostanze che comportano una pena di specie diversa, e come tali escluse dal giudizio di comparazione ex art. 69, n 4 c.p. previgente.
A tale conclusione si perviene attraverso le seguenti argomentazioni:
«a) le circostanze aggravanti in questione rientrano tra quelle per le quali, ai sensi dell'art. 63 c.p., la legge "stabilisce" una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Orbene, l'art. 157, comma 1, c.p. fa riferimento proprio alla pena "stabilita" dalla legge e dunque la stessa identità dei termini utilizzati dal legislatore impone di considerare anche le circostanze di cui trattasi, ai sensi e per gli effetti del citato art. 157, comma 1, c.p.;
b) nell'art. 157, comma 1, n 1) c.p. si prevede in venti anni il tempo necessario a prescrivere per i delitti per i quali "la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni". Ciò posto, poiché, ai sensi dell'art. 23, comma 1, c.p., la reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni e considerato che nel sistema originario del codice penale non erano previsti reati con pena edittale superiore ai ventiquattro anni, deve dedursi che nel porre il n. 1 del primo comma dell'art. 157 c.p. il legislatore ha fatto riferimento anche ai reati circostanziati, perché altrimenti avrebbe ragionevolmente usato la locuzione "pena della reclusione pari a ventiquattro anni";
c) qualora, con riferimento al vecchio art. 69 c.p., si ritenesse applicabile la prescrizione in caso di concorso di circostanze attenuanti e di aggravanti ad effetto speciale o che comportano pene di specie diversa, si perverrebbe ad effetti paradossali proprio in relazione all'art. 577 c.p., richiamato anche nell'imputazione del presente processo. E' noto, infatti, che tale ultima disposizione prevede al primo comma alcune circostanze aggravanti del reato di omicidio che comportano la pena dell'ergastolo ed al secondo comma ne prevede altre che invece comportano la pena della reclusione da ventiquattro a trenta anni. In siffatto contesto normativo, ricorrendo per entrambe le ipotesi due identiche circostanze attenuanti, si verificherebbe, alla luce del già richiamato art. 65 c.p., che le ipotesi più gravi di cui al primo comma dell'art. 577 c.p. si prescriverebbero in quindici anni (ex art. 157, comma 1, n. 2 c.p.) e dunque prima di quelle meno gravi di cui al secondo comma dello stesso articolo, prescrittibili in venti anni (ex art. 157, comma 1, n. 1 c.p.). Risultato palesemente assurdo che non sarebbe potuto sfuggire ai compilatori del codice e che dunque conferma "a contrariis" l'estraneità all'istituto della prescrizione anche dei reati per i quali l'ergastolo si configura soltanto a seguito del riconoscimento di circostanze aggravanti;
d) la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha di recente affrontato, ai fini dell'ammissibilità del giudizio abbreviato di cui agli artt. 438 e ss. c.p.p, il problema della definizione della categoria dei reati punibili con l'ergastolo (di categoria parla esplicitamente la sentenza 176/91 della Corte Costituzionale) ed ha ritenuto che quel giudizio speciale sia escluso non soltanto quando sia contestato un reato che abbia l'ergastolo quale pena edittale ma anche quando la possibilità della pena perpetua derivi dall'avvenuta contestazione di una circostanza aggravante. Orbene, non sembra che l'ordinamento possa ammettere due distinte categorie di reati punibili con l'ergastolo, una a fini di diritto processuale ed una a fini di diritto sostanziale».
La conclusione a cui si perviene fa, sempre secondo il Tribunale, perdere decisività alla tesi, prospettata dal pubblico ministero ed esplicitamente condivisa da talune delle parti civili, secondo cui il delitto oggetto di questo giudizio non si può comunque prescrivere, in quanto reato contro l'umanità. Nella sentenza si dà conto anche di tale prospettazione ricavandosene un supporto interpretativo alla anzidetta conclusione delle imprescrittibilità cui come sopra si perviene.
In sintesi, si rileva che la Convenzione adottata dall'Assemblea delle Nazioni Unite con risoluzione 2391 (XXIII) del 26 novembre 1968 ha solennemente affermato in diritto internazionale «il principio dell'imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità»; che tale atto delle Nazioni Unite rappresenta indubbiamente il punto d'arrivo di un lento ma costante processo internazionalistico (il cui inizio può essere fatto addirittura risalire al Manuale adottato dall'Istituto di diritto internazionale il 9 settembre 1880 nella sessione di Oxford, cosiddetto Manuale di Oxford) teso a reprimere in modo sempre più efficace le violazioni delle leggi e degli usi della guerra; e che in tale quadro il principio dell'imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità assume oggettivamente carattere di "jus cogens", in quanto posto a tutela di interessi generali della società internazionale.
Il Tribunale rileva, inoltre, come anche la dottrina internazionalista avvalori il principio dell'imprescrittibilità di tali "delicta iuris gentium", collegandolo all'impossibilità di presumere nei confronti dello Stato che ne è vittima quell'affievolimento nel tempo della pretesa punitiva che invece solitamente si manifesta nei riguardi dei reati comuni e che è alla base dell'istituto della prescrizione. In effetti - viene precisato in sentenza - tali delitti costituiscono sempre un "vulnus" all'intima essenza dello Stato perché essi, a prescindere dai singoli, coinvolgono la popolazione, intesa quale elemento costitutivo del soggetto statuale, e ciò, in una proiezione internazionalistica, ben giustifica il perpetuarsi dell'interesse a punire.
Ciò premesso e posto che il reato ascritto ai due imputati costituisce, sul piano del diritto internazionale, crimine di guerra e contro l'umanità, deve escludersi per il Tribunale che nel caso di specie la regolamentazione internazionalistica non possa comunque operare nel diritto interno in ragione dell'inammissibile retroattività di una norma che comporterebbe una sanzione penale poiché nel 1968 - anno in cui non è più seriamente dubitabile la vigenza della regola internazionale in questione - il reato contestato non era prescritto a causa dell'interruzione della prescrizione operata dalla sentenza pronunciata il 25 ottobre 1952 dal Tribunale supremo militare a carico del Kappler, effetto valevole «per tutti coloro che hanno commesso il reato», ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.
Ciò nonostante, qualora si volesse ritenere che il reato contestato all'Hass ed al Priebke sia prescritto in base all'art. 157 c.p., si porrebbe per il Tribunale il problema se procedere alla mera disapplicazione della norma interna oppure sollevare eventuale questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 10, comma 1, Costituzione.
Conclusivamente, essendo però stata già accertata per altra via la mancata prescrizione del reato, tale questione assume rilevanza, pur residuandone, sempre secondo il Tribunale, una decisiva conferma della anzidetta conclusione, una volta considerato come l'art. 10, comma 1, Costituzione rappresenti anche una "norma sull'interpretazione", nel senso che in base ad essa deve essere sempre privilegiata l'interpretazione che renda la normativa interna conforme ai principi internazionali generali.
1.1.15. In ordine alla commisurazione della pena, si legge nella sentenza quanto segue: «Prima di procedere alla puntuale quantificazione della pena nei confronti di ciascuno degli imputati, il Collegio ritiene necessarie alcune precisazioni. A prescindere da ogni considerazione di carattere etico in ordine all'efferatezza dei fatti posti in essere, il Tribunale non può innanzitutto non tener conto della presenza nel nostro ordinamento di una norma come l'art. 27, comma 3 Costituzione che riserva alla pena una funzione non soltanto meramente retributiva; in relazione ad essa e avuto riguardo a quanto disposto dall'art. 133 c.p., l'età degli imputati, unita al lunghissimo tempo trascorso dai fatti, assume un oggettivo, innegabile rilievo nel momento in cui deve essere individuata la pena da irrogare. Il Collegio rileva inoltre come nel caso di specie la continuazione tra i singoli eventi criminosi si connoti con caratteri del tutto peculiari. Al di là, infatti, di ogni formalismo giuridico, non può seriamente negarsi che, nella sostanza, si è in presenza di una condotta sostanzialmente unitaria, sorretta da un unico processo volitivo che assume giuridico rilievo prescindendo dall'entità numerica delle vittime. Tale constatazione, se da un lato impone di rilevare un'evidente inadeguatezza legislativa nel momento in cui non si prevede un'autonoma fattispecie di reato militare in tempo di guerra riferibile a condotte di eccidio di massa, dall'altro fa apparire conforme a giustizia, nell'attuale quadro normativo, limitare l'aumento di pena per i fatti in continuazione in modo da dare rilievo all'unitarietà di fondo del crimine commesso e nel contempo salvaguardare la proporzionalità della sanzione rispetto a chi, vale a dire il Kappler, risulta giuridicamente il principale responsabile. In sede di determinazione dell'aumento di pena per la continuazione appare inoltre necessario distinguere la posizione dei due imputati stante la loro diversa modalità di partecipazione agli eventi. Ciò posto, ritiene equo il Tribunale, in applicazione degli artt. 65 e 81 c.p., procedere alla seguente quantificazione della pena:
a) per l'Hass: riduzione dell'ergastolo alla pena della reclusione per anni ventuno, in applicazione delle riconosciute attenuanti generiche; ulteriore riduzione ad anni quattordici per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 1 c.p.m.p.; definitiva riduzione ad anni dieci per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 2 c.p.m.p.; aumento di otto mesi per la continuazione; pena finale anni dieci e mesi otto di reclusione;
b) per il Priebke: riduzione dell'ergastolo alla pena della reclusione per anni ventuno in applicazione delle riconosciute attenuanti generiche; riduzione ad anni quattordici per la concessa circostanza attenuante di cui all'art. 59, n. 1 c.p.; aumento di un anno per la continuazione; pena finale, anni quindici di reclusione».
1.1.16. Successivamente il Tribunale si occupa, pur in assenza di richiesta delle parti, di verificare la sussistenza della specifica causa di estinzione della pena costituita dal condono. Sul punto, avuto riguardo alle disposizioni specifiche o di carattere generale contenute nei vari provvedimenti clemenziali succedutisi dalla data di commissione del reato, il Tribunale ritiene che soltanto a decorrere dal condono concesso con il d.P.R. 4 giugno 1966, n. 432 si possa riconoscere l'applicabilità del beneficio ai due imputati. Così motiva la sentenza.
«Deve infatti osservarsi che mentre l'art. 3, comma 2, del precedente d.P.R. 24 gennaio 1963, n. 5 stabiliva che l'amnistia e l'indulto non si applicavano, oltre che a taluni reati previsti dal c.p.m.p., ai reati previsti dal titolo secondo del libro terzo e dal titolo quarto del libro terzo nonché dall'art. 115 del c.p.m.g., l'art. 4 del già citato d.P.R. 332/66, pur confermando le esclusioni concernenti i reati previsti dal libro terzo, titolo secondo e dall'art. 115 del c.p.m.g., nulla disponeva in ordine a quelli previsti dal titolo quarto del libro terzo del c.p.m.g., che è appunto il titolo relativo ai reati contro le leggi e gli usi della guerra. Si tratta di modifica significativa che rende inequivoca l'intervenuta volontà del legislatore, pur in presenza di esclusioni oggettive dal condono, di ricomprendere anche tali reati nel beneficio e tale volontà deve ritenersi confermata anche in occasione degli ulteriori provvedimenti indulgenziali (segnatamente, d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283; d.P.R. 4 agosto 1978, n. 413; d.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744; d.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865; d.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394), dato che in nessuno di essi si rinvengono disposizioni tendenti al ripristino dell'esclusione. Con riferimento al caso di specie si potrebbe obiettare che l'indulto sarebbe inapplicabile per il fatto che le condotte criminose concretizzano nella sostanza degli omicidi, reati generalmente esclusi dall'àmbito di applicazione dei provvedimenti di condono. Tale tesi non può essere condivisa per due ordini di motivi. Innanzitutto, l'art. 185 c.p.m.g. costituisce un autonomo titolo di reato militare equiparato "quoad poenam" al delitto di omicidio p. e p. dall'art. 575 c.p. soltanto quando la violenza consiste, appunto, nell'omicidio; orbene, se tale autonoma configurazione di reato è addirittura idonea a comportare il riconoscimento della competenza della giurisdizione militare, ai sensi degli artt. 37 c.p.m.p. e 6 d. lgs. lgt. 21 marzo 1946, n. 144, davvero non si comprende perché l'ontologica differenziazione dal reato comune di omicidio debba poi scemare in altri momenti applicativi della legge. In secondo luogo, estendere "in malam partem" gli elenchi di esclusione dal condono di volta in volta formati dal legislatore con riferimento allo specifico "nomen iuris" delle fattispecie interessate, contrasta con fondamentali principi interpretativi. Sotto altro profilo potrebbe apparire singolare l'applicazione dell'indulto nei confronti di reati per i quali si afferma l'esistenza di principi generali di carattere internazionale tendenti ad affermarne l'imprescrittibilità. A tale proposito è appena il caso di sottolineare che la prescrizione è una causa di estinzione del reato, che concretizza la rinuncia in radice dello Stato a punire; l'indulto, invece, è una causa di estinzione della pena che presuppone la condanna (e, dunque, l'attuazione della pretesa punitiva dello Stato) rappresentando soltanto un beneficio "ope legis" per il condannato».
In base a tali considerazioni, il Tribunale giunge a determinare «la misura della pena detentiva che deve essere condonata ammonta ad anni dieci», rilevando altresì che l'eccezionale entità della quantità di pena di cui deve essere dichiarata in sentenza l'estinzione a titolo d'indulto «è in un certo senso fisiologica laddove si pensi all'epoca dei fatti (oltre cinquant'anni fa) ed all'alto numero dei provvedimenti clemenziali nel frattempo intervenuti»; alla declaratoria di condono nei termini suindicati consegue, ai sensi dell'art. 300, comma 4, c.p.p., l'immediata rimessione in libertà dell'imputato Hass, in quanto la pena residuale viene conseguentemente a risultare inferiore al periodo di custodia cautelare già sofferto nel corso del processo.
1.1.17. Accertata la penale responsabilità degli imputati, il Tribunale rileva, quanto alle domande di risarcimento del danno presentate dalle parti civili, essere fuori discussione che il reato accertato ha comportato, in rapporto di diretta causalità, danni giuridicamente apprezzabili e che neppure potrebbe dubitarsi della sussistenza delle condizioni per la conseguente condanna al risarcimento degli stessi alla luce dell'Accordo sottoscritto il 2 giugno 1961 tra l'Italia e la Repubblica Federale di Germania (reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, in Gazz. uff. n. 214 del 25 agosto 1962, ed il cui art. 2 così stabilisce: «Il Governo Italiano dichiara che sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Repubblica Italiana o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Repubblica Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l' 8 maggio 1945»), giacché tale atto normativo non può sprigionare effetti nei confronti dei due imputati, i quali, alla data di entrata in vigore di quel d.P.R., non avevano a loro carico pendenti «rivendicazioni e richieste» da parte delle attuali parti civili e per i fatti di causa.
Si rileva, anzi, che nel corso dell'udienza preliminare svoltasi a carico dell'imputato Priebke venne sollevata dal Giudice dell'udienza preliminare questione di legittimità costituzionale dell'art. 270, comma 1, c.p.m.p. nella parte in cui vietava l'esercizio dell'azione civile presso il giudice militare, questione risolta dalla Corte Costituzionale con declaratoria di incostituzionalità della suindicata norma; conseguentemente si evidenzia che ciò non sarebbe stato possibile per difetto di rilevanza nel giudizio a quo laddove il citato d.P.R. 1263/62 avesse avuto valenza preclusiva all'insorgere di obbligazioni civilistiche a carico degli imputati.
Il Tribunale passa, pertanto, a condannare in solido gli imputati al risarcimento del danno alle parti civili costituite tranne Benati Stefano, Benati Nino, Limentani Davide, Di Porto Alberto, Mieli Emilia, Fatucci Angelo, Mieli Orietta, Marino Sergio, la cui costituzione deve intendersi revocata, ai sensi dell'art. 82, comma 2, c.p.p., non avendo le stesse presentato le conclusioni a norma dell'art. 523 del codice di rito, rimettendo le parti davanti al giudice civile, ai sensi dell'art. 539 c.p.p., ai fini di una puntuale liquidazione del danno in relazione a ciascuna delle singole posizioni.
1.1.18. Conclusivamente, il Tribunale militare di Roma, con la citata sentenza, previo riconoscimento ad entrambi gli imputati delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62 bis c.p. e 59, n.1, c.p.m.p., nonché, al solo Hass, di quella di cui all'art. 59, n.2, c.p.m.p. ha condannato
- Hass Karl alla pena della reclusione per anni dieci e mesi otto;
- Priebke Erich alla pena della reclusione per anni quindici;nonché entrambi, in solido, alle spese processuali e ad ogni altra conseguenza di legge, e, altresì, al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede.
Ha infine dichiarato parzialmente condonata la pena inflitta agli imputati nella misura di anni dieci.
1.2. Avverso detta sentenza ha proposto ritualmente ricorso immediato per cassazione il Procuratore generale militare presso questa Corte e altresì hanno proposto, sempre ritualmente, appello il Procuratore militare di Roma, i difensori degli imputati e un difensore delle parti civili.
1.2.1. Nel primo degli indicati atti di impugnazione, che si converte in appello ai sensi dell'art. 580 c.p.p., il Procuratore generale militare contesta innanzitutto la legittimità della concessione delle attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., rilevando che, coerentemente con la più volte conclamata "ultrattività" della legge penale militare di guerra sancita negli artt. 2, comma 4, c.p. e 23 c.p.m.g., il Tribunale non avrebbe dovuto applicare le suddette attenuanti, previste da normativa (art. 2 d. lgs. lgt. 14 settembre 1944, n.28) entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto. Posto che, come ha avuto ben presente il Tribunale, l'ultrattività non si riferisce soltanto alle norme incriminatrici, ma alla «complessa unità d'insieme normativo disciplinante il reato configurato nella legge di guerra», per l'impugnante non può giustificarsi l'applicazione anzidetta sul rilievo che l'art. 62 bis c.p. è stato introdotto pur sempre nel periodo di vigenza della legge penale militare di guerra e che il principio della retroattività della legge penale più favorevole può essere invocato nel caso di successione di leggi penali eccezionali. Infatti, «né la lettera, né la ratio del citato IV comma dell'art. 2, con cui si vuole salvaguardare l'efficacia intimidatrice della legge eccezionale» consentirebbero la proposta distinzione. In ogni caso, soggiunge l'impugnate, anche a voler ammettere la deroga, essa non dovrebbe valere nel caso in esame, perché non si tratterebbe di una successione fra leggi eccezionali, bensì della sopravvenienza di una norma «non precipuamente intesa a regolare la situazione di eccezione».
Nello stesso atto si contesta poi la concessione ad entrambi gli imputati dell'attenuante prevista dall'art. 59, comma 1, n.1, c.p.m.p., rilevandosi che tale circostanza non trova applicazione per il solo fatto che l'inferiore sia concorso nel reato con il superiore e neppure che l'inferiore abbia commesso il reato su ordine del superiore. Occorre, secondo il Procuratore generale, che «il superiore si sia trovato di fronte ad un iniziale rifiuto di obbedienza, o anche a qualche obiezione del subordinato, e che per ciò si sia egli indotto, nell'esercizio della sua autorità, ad un'attività di convincimento nei confronti del medesimo», giacché «solo a queste condizioni può dirsi che il superiore abbia determinato l'inferiore», creando in lui l'intenzione di commettere il reato.
Altro motivo d'impugnazione riguarda la concezione all'imputato Hass dell'attenuante di cui all'art. 59, comma 1, n.2, c.p.m.p., relativa alla minima partecipazione al reato. Rileva l'impugnante che a ciò è di ostacolo l'essersi verificate talune delle condizioni indicate nell'art. 58 c.p.m.p., particolarmente le circostanze aggravanti del concorso con inferiore e del concorso di cinque o più persone, non potendosi disconoscere tale ostacolo - come invece ritiene il Tribunale - sol perché le due circostanze non risultano enunciate nel decreto che dispone il giudizio. Sul punto, si osserva che, pur non indicandosi, nella succinta imputazione, le disposizioni violate, tali due aggravanti risultano invero contestate: «la prima in quanto vi è indicato che il magg. Hass è concorso nel reato con l'inferiore ten. Priebke; la seconda perché il reato è descritto come posto in essere in concorso da non meno di cinque persone: Kappler, Hass, Priebke e "altri militari tedeschi", e quindi due o più». Comunque, si aggiunge, anche a voler negare che vi sia stata una regolare contestazione delle due aggravanti ostative, ciò comporterebbe esclusivamente l'impossibilità di un correlativo aumento di pena, posto che «la cognizione del giudice, ad ogni altro fine, e quindi anche per la decisione sulla sussistenza di un'attenuante, comunque deve riguardare ogni elemento di fatto influente sulla decisione, compresi quelli corrispondenti ad aggravanti non considerate nel decreto di rinvio a giudizio».
In coerenza a quanto come sopra richiamato si impugna, quindi, con lo stesso atto, la sentenza del Tribunale militare di Roma per non essersi essa pronunciata sulle aggravanti sussistenti e contestate nella forma indicata (ad entrambi, quella dell'art. 112, comma 1, n. 1, c.p.; al solo Hass, quella dell'art. 58, comma 1, c.p.m.p.).
Come ultimo motivo di impugnazione deduce il Procuratore generale l'erronea applicazione del condono nella misura di anni dieci. In primo luogo, con riferimento ai decreti indulgenziali del 1966, del 1970, del 1978, del 1981 e del 1986, si nota che in tali provvedimenti viene escluso il condono per il reati previsti negli artt. 575, 576 e 577 c.p. e che l'esclusione non può che riguardare «il plurimo omicidio delle Fosse Ardeatine, in quanto gli artt. citati nel codice comune non forniscono al reato militare dell'art. 185 c.p.m.g. solamente il trattamento sanzionatorio, come vorrebbe il giudice di primo grado, bensì il precetto intero e le aggravanti specifiche, secondo una tecnica ben nota ed adottata anche per altre figure di reato nei codici penali militari (ad es. artt. 186, 195, 224, ecc. c.p.m.p.)». Peraltro, si osserva, nel decreto del 1986 si rinverrebbe una interpretazione autentica al riguardo, disponendosi il condono ridotto ad un anno a determinate condizioni «per i reati di omicidio volontario previsti nel secondo comma dell'art. 186 e dal secondo comma dell'art. 195 del codice penale militare di pace», ciò che confermerebbe che per il legislatore quelli indicati, come gli altri per i quali si usa la stessa tecnica, sono pur sempre reati di omicidio, per i quali (dato l'espresso rinvio operato all'interno nel decreto) varrebbe l'esclusione generale dal condono (cfr. artt. 6 e 8 del decreto). In secondo luogo e in subordine, l'impugnata sentenza violerebbe i decreti indulgenziali, salvo quello del 1966, in ordine al "quantum" del condono; sul punto la sentenza, sempre ad avviso dell'impugnante, non fornisce «una benché scheletrica indicazione sulle modalità di raggiungimento di quel risultato» (anni dieci), e, comunque, se ne deduce che in essa non si è tenuto conto del fatto che, dopo la prima applicazione, il condono andava semmai applicato ogni volta nella misura ridotta di un anno, proprio per aver trovato applicazione per lo stesso reato il provvedimento indulgenziale precedente.
1.2.2. L'atto di appello del pubblico ministero di primo grado non coinvolge ulteriori punti della decisione, attenendo i motivi proposti alle medesime questioni sollevate dal Procuratore generale. Quanto alle attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis c.p., se ne contesta, nel merito, l'applicazione all'imputato Priebke, negando che sussistano «gli elementi positivi indicati dal giudice di primo grado». In particolare, quanto ai motivi a delinquere, l'affermazione che il Priebke abbia commesso il reato perché chiamato ad assolvere un ruolo consequenziale alle funzioni esercite nell'organigramma del Comando tedesco appare all'appellante in contrasto con il ruolo di rilevante importanza che lo stesso Collegio ravvisa in capo all'imputato, quale programmatore oltreché esecutore dell'eccidio; quanto alla condotta susseguente al reato, fa notare l'appellante che il suo comportamento processuale non è stato certamente collaborativo e che egli «non ha in alcun modo mostrato il benché minimo segnale di una rivalutazione critica della propria condotta, chiudendosi in un algido e quasi sdegnoso isolamento», mentre sarebbe, d'altra parte, improprio il richiamo a norme di diversa natura e funzione che riservano un trattamento di favore a persone di età avanzata.
Sul punto dell'attenuante di cui all'art. 59, comma 1, n.1, c.p.m.p., l'appellante, richiamando giurisprudenza relativa alla corrispondente previsione del codice comune, osserva che il dato qualificante della determinazione è rappresentato da un comportamento che abbia consentito la realizzazione di specifici reati coll'attenuare le facoltà di reazione del soggetto "determinato" in forza dell'esercizio di una specifica attività di coercizione, di condizionamento psicologico o comunque di persuasione; fa altresì notare che «non possono considerarsi "determinati" a commettere il reato soggetti quali il Priebke e l'Hass che, in sede di ricostruzione del fatto sono stati ritenuti non solo, per il ruolo rispettivo, collaboratori attivi e zelanti del Kappler, ma, segnatamente, il Priebke, in posizione di relativa autonomia nell'integrare, con disposizioni di dettaglio, la fase esecutiva della prescrizione di servizio ricevuta».
Quanto all'attenuante di cui all'art. 59, comma 1, n. 2, c.p.m.p., oltre ai profili già evidenziati dal Procuratore generale in ordine alla sussistenza delle condizioni ostative alla sua applicazione, si rileva, in fatto, che l'Hass ha «posto in essere un contributo senza dubbio essenziale ai fini della sicura e compiuta realizzazione del fatto» in quanto «fu chiamato a dare l'esempio alla truppa, attraverso la partecipazione personale all'uccisione delle vittime, al fine di eviatre qualsivoglia titubanza nell'attuazione dell'efferata esecuzione dell'eccidio».
In ordine al profilo dell'erronea applicazione dei provvedimenti indulgenziali, si rileva che altresì il Tribunale, ritenendo non oggettivamente escluso dai benefici il reato contestato, ha omesso di considerare il peculiare rilievo della complementarità del sistema penale militare, in forza del quale il richiamo della norma penale comune dell'art. 575, ad opera dei suddetti decreti, non potrebbe che essere recettizio, cioè «ontologico e non soltanto "quoad poenam"».
In forza di tali considerazioni il Procuratore militare di Roma conclude chiedendo la riforma della sentenza impugnata, limitatamente ai punti suindicati, con conseguente rideterminazione della pena inflitta.
1.2.3. La difesa di Karl Hass propone appello chiedendo, in riforma dell'impugnata sentenza, ed in via principale, l'assoluzione dell'imputato «per aver agito per ordine del suo superiore, o comunque per non essersi potuto sottrarre all'esecuzione dell'ordine stesso»; in subordine, il proscioglimento per intervenuta prescrizione, previa declaratoria della prevalenza o equivalenza delle riconosciute attenuanti sulle contestate aggravanti.
A fondamento della richiesta principale l'appellante adduce il tenore della decisione del Tribunale militare territoriale di Roma del 1948 a carico del Kappler e di altri militari tedeschi partecipanti all'eccidio, e in particolare le conclusioni a cui era giunta quella sentenza in ordine alla posizione di quei militari tedeschi - ritenuta analoga a quella di Hass - i quali «non avevano svolto alcuna attività in merito all'attentato, ma erano stati riuniti qualche ora prima dell'esecuzione per ricevere l'ordine di partecipare a questa e quindi assieme agli altri erano stati condotti alle Cave Ardeatine», evidenziando che tale conclusione fu nel senso di escludere «che essi avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo» con riferimento alle dieci persone che Kappler fece fucilare al di fuori dell'ordine ricevuto e alle cinque fatte fucilare per errore, una volta considerato che «gli imputati appartenevano a un'organizzazione dalla disciplina rigidissima, dove assai facilmente si acquistava un abito mentale portato all'obbedienza pronta, tenuto presente che il timore di una denunzia ai tribunali militari delle S.S. quanto mai rigidi ed ossequienti al volere di Himmler, non poteva non diminuire la loro libertà di giudizio, valutata infine la circostanza che gli imputati erano ignari della esatta situazione che portava alla fucilazione delle Cave Ardeatine, mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto di quelli ad essi impartito da Kappler spesso erano stati eseguiti in zone di operazione». Ritiene, quindi, l'appellante che la diversa conclusione cui è pervenuto il Tribunale militare di Roma con la sentenza appellata, a distanza di cinquanta anni dal fatto, non sia giustificata dal mutamento del quadro probatorio, soprattutto in relazione alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato contestato all'Hass, eccependo altresì la contraddittorietà del ritenere, da un lato, che l'Hass fu solo un esecutore materiale estraneo alla fase preparatoria ed organizzatoria dell'eccidio e, dall'altro, la percezione da parte di costui della manifesta criminosità dell'ordine ricavandola dalle modalità dell'azione. Il Tribunale avrebbe altresì errato negando almeno in punto di dolo la necessità che avrebbe spinto gli imputati esecutori ad agire, ed in ciò disattendendo le testimonianze rese sul punto dal Domilzlaff e dal Clemens nel processo del 1948, vale a dire la natura ferrea della disciplina vigente all'interno delle S.S., elemento a proposito del quale l'appellante si riporta ad una copiosa documentazione prodotta e segnatamente ad una consulenza storico-giuridica redatta dal prof. Seidler.
In subordine, l'appellante contesta l'applicazione nel caso in questione dell'art. 23 c.p.m.g. in quanto comportante l'esclusione del giudizio di bilanciamento tra aggravanti e attenuanti ai fini della prescrizione ed estensione all'Hass, ai sensi dell'art. 118 vecchio testo c.p., dell'aggravante della premeditazione riconosciuta sussistente per il solo Priebke. Rileva, in proposito, che il richiamo operato dall'art. 185 c.p.m.p. alle «pene stabilite dal codice penale» equivale ad un rinvio integrale alla disciplina ordinaria e quindi anche al regime della retroattività della legge più favorevole, contenuto nell'art. 2, comma 3, c.p. Comunque che, anche a opinare diversamente, la regola della ultrattività sancita dall'anzidetto art. 23, dovrebbe ritenersi operante con riferimento esclusivo alle pene edittali e non già alle norme della parte generale del codice penale applicabili per solo effetto della complementarità, così come riconosciuto dalla Corte costituzionale in materia di leggi finanziarie e a proposito dell'art. 20 l. n.4/1929. La distinzione, proposta dal Tribunale sul punto, tra legge eccezionale (legge penale militare di guerra) e legge speciale (leggi finanziarie) non sarebbe rilevante al fine di giustificare la portata più generale dell'art. 23 c.p.m.g. A tali considerazioni conseguirebbe la possibilità di dar corso al giudizio di bilanciamento tra l'unica aggravante riconosciuta in capo all'Hass - quella di cui all'art. 61 n. 4 c.p., rimanendo, invece e per effetto del nuovo testo dell'art. 118 c.p., inestensibile quella della premeditazione - e le circostanze attenuanti riconosciute dallo stesso Tribunale (artt. 59, n. 1 e 2, c.p.m.p. e 62 bis c.p.); e ad un simile giudizio non potrebbe che sortire - a differenza di quanto opina il Tribunale - il risultato minimo della equivalenza tra gli elementi in comparazione. Al riguardo, infatti, per l'appellante il Tribunale medesimo sembra non aver considerato che tra gli elementi di cui all'art. 133 c.p., utilizzabili anche a tal fine, il criterio della gravità del reato è subvalente rispetto al criterio della capacità a delinquere, poiché, a voler diversamente ritenere, «di fronte ad un reato di particolare gravità come quello addebitato all'Hass, non sarebbe mai possibile alcuna attenuazione di pena o concessione di diminuenti, in aperta violazione del principio costituzionale dell'art. 27 Cost.».
Alla conclusione dell'imprescrittibilità - ad avviso del medesimo appellante - non potrebbe nemmeno pervenirsi adottando l'altra strada interpretativa, cui pure il Tribunale mostra credito, dell'avvenuto recepimento da parte del diritto italiano del principio internazionalmente sancito della imprescrittibilità dei crimini di guerra. In primo luogo, infatti, andrebbe negato alla regola della imprescrittibilità dei suddetti crimini, sancita in alcune convenzioni internazionali, il carattere di norma consuetudinaria capace, ai sensi dell'art. 10 Cost. di filtrare automaticamente nell'ordinamento italiano; in secondo luogo, anche a voler ritenere un tale carattere, la norma si porrebbe in irrimediabile contrasto con l'art. 25 Cost., proprio per pretendersene una applicazione retroattiva nel caso di specie.
1.2.4. La difesa di Erich Priebke formula un più articolato ventaglio di richieste di riforma della sentenza impugnata. In via principale, si chiede il proscioglimento dell'imputato «perché l'azione non poteva essere iniziata per la pregressa esistenza di una sentenza assolutoria definitiva per medesimi fatti»; in subordine, l'assoluzione «per aver agito in esecuzione di un ordine legittimo o, quantomeno nella convinzione della legittimità dello stesso»; in ulteriore subordine, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, una volta eliminate le circostanze aggravanti o, comunque, ritenute le stesse almeno equivalenti alle concesse attenuanti; in estremo subordine, l'applicazione delle attenuanti nella misura massima e l'irrogazione della pena nella misura minima.
Quanto alla richiesta principale, si parte dal rilievo della assoluta sovrapponibilità, dal punto di vista oggettivo dell'imputazione contestata nel 1948 al Kappler e agli altri subordinati, da una parte, e quella oggetto di accertamento nel presente procedimento, dall'altra, e dalla contestuale affermazione secondo la quale il giudicato non costituisce soltanto uno «strumento inteso ad assicurare la certezza del diritto dal punto di vista soggettivo» ma è anche «espressione di tutela del valore costituito dall'esistenza di una coerenza logica tra diversi giudizi», ed è, perciò, volto anche a prevenire conflitti teorici «e, cioè, decisioni logicamente incompatibili con quella appunto coperta da giudicato». Tale ulteriore funzione sarebbe ravvisabile nei rapporti tra giudicato penale e giudizio amministrativo o civile, essendo «sicura» in materia «l'efficacia del giudicato penale favorevole anche nei confronti dell'asserito concorrente nell'azione di danno che, per ipotesi non giudicato in sede penale, venga ad essere attinto da azione civile o da giudizio amministrativo». Nel vigente ordinamento processuale la non accettabilità del c.d. conflitto teorico di giudicati sarebbe correlabile alla previsione dell'art. 630, lett.a), c.p.p., mentre il conflitto pratico andrebbe risolto in base all'art. 669 c.p.p., da cui deriverebbe che «nell'ipotesi in cui l'azione penale sia stata esercitata sulla base di apprezzamenti dei fatti inconciliabili con quelli posti a base di altra sentenza irrevocabile, non potrà non determinarsi impromovibilità dell'azione penale, per difetto di interesse giuridico a chiedere la sentenza di condanna e, quindi, ad instaurare un procedimento che sarebbe fatalmente destinato ad abortire in sede di revisione». Questa opinione sarebbe confortata da una recente sentenza della Corte di cassazione in tema di inconciliabilità tra una sentenza di applicazione pena e altra di assoluzione pronunciata nei confronti dei concorrenti nel reato in relazione al quale era stata applicata pena a richiesta. Ciò posto, nel caso di specie la semplice lettura del capo di imputazione ascritto al Priebke rivela trattarsi del medesimo fatto già giudicato nel 1948 dal Tribunale militare di Roma, per cui una sentenza di condanna nei suoi confronti non potrebbe che fondarsi su una rivalutazione non consentita di quel fatto. Né potrebbe obiettarsi, come fa invece la sentenza impugnata, che il principio stabilito dalla Corte di cassazione è valido solo per il contrasto fra una sentenza dibattimentale di proscioglimento e una sentenza di patteggiamento perché, quest'ultima è dall'ordinamento destinata a produrre i medesimi effetti di una sentenza di condanna.
Quanto alla illustrazione della prima richiesta subordinata, si osserva innanzitutto che la sentenza impugnata ha errato nel concludere con sicurezza che l'imputato ha avuto un ruolo di preminente rilievo nell'effettuazione degli interrogatori violenti presso il Comando di Via Tasso, omettendo di considerare sia che alle medesime conclusioni non giunse la Commissione alleata incaricata, in epoca prossima ai fatti, di individuare i responsabili di quelle torture, sia il contenuto delle testimonianze rese a discarico quale quella del teste Guzzo, ed avendo, invece, dato immotivatamente peso solo ad altre risultanze dibattimentali.
Analoga critica alla ricostruzione dei fatti muovono i difensori in ordine al ruolo del Priebke nelle attività preparatorie dell'eccidio. In particolare, si sostiene che risulta agli atti che, quand'anche quest'ultimo avesse preso parte alla preparazione delle liste, una sua correlativa sua potestà decisionale al riguardo andrebbe esclusa alla stregua delle dichiarazioni rese dal Kappler e dal Quapp nel loro interrogatorio dibattimentale del 1948 e che, comunque, «a partire dal momento dell'attentato di via Rasella e fino all'arrivo delle persone destinate alla fucilazione nelle Cave Ardeatine (ove al Priebke è riservato il mero "spoglio" delle liste) non è mai dato rinvenire (...) una qualsivoglia forma di partecipazione dell'imputato alle altre attività per così dire "preparatorie" dell'eccidio».
Inoltre si contesta la ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato alle autorità alleate nel campo di prigionia di Afragola, rilevando, da un lato, che è erroneo ritenerne la natura documentale, poiché si tratterebbe pur sempre di «derogare ai principi generali che governano il transito dibattimentale delle dichiarazioni rese dall'imputato con specifico riferimento ai fatti per cui è processo», non essendo conferente il richiamo all'art. 237 c.p.p., poiché si tratta di dichiarazioni rese dal Priebke in stato di prigionia su sollecitazione delle autorità alleate, e d'altro lato, che anche a voler riconoscere invece a tali dichiarazioni la natura di atto assunto da autorità giudiziaria straniera, acquisibile ex art. 78 disp. att. c.p.p., dovrebbe, ad ogni conseguente effetto, essere considerata la mancata partecipazione del difensore nel momento in cui esse vennero rese.
Da ultimo, si contesta «la ricostruzione operata con riferimento alla uccisione di cinque persone in più rispetto al numero di trecentotrenta ordinato, in origine da Kappler, giudicando apodittica l'affermazione della sentenza impugnata relativa alla inverosimiglianza della ricostruzione che della stessa vicenda ha offerto la sentenza del 1948. In particolare si pone in risalto che se la conta dei predestinati fosse stata fatta all'atto del prelevamento dal Carcere, se non altro per verificare che il numero non fosse inferiore a quello voluto, non sarebbero giunte sul luogo cinque persone più del necessario e che non è verosimile la supposta necessità di eliminare cinque testimoni scomodi, stante che analoga necessità non fu ritenuta sussistere per il disertore Reider, il quale - come nota la stessa sentenza - dapprima fu portato sul posto e poi ricondotto in Via Tasso. Si rileva, sul punto, che comunque manca la prova che della presenza delle cinque persone in più ci si accorse nel periodo in cui il Priebke teneva le liste e che egli abbia fornito un contributo alla uccisione delle medesime.
Quanto alla relativa valutazione giuridica, gli stessi appellanti contestano la conclusione cui è giunta la sentenza, di escludere che il loro assistito potesse rappresentarsi come legittimo l'ordine di eseguire la rappresaglia. In particolare rilevano che ciò non può ricavarsi dalle dichiarazioni rese dall'imputato e che una cosa è ritenere che egli si sia reso conto della «estrema odiosità» del compito assegnatogli, un'altra è concludere che egli si sia reso conto della «illegittimità dell'ordine», mentre, anche a tale specifico riguardo, valgono tuttora le conclusioni cui sul punto è giunta la sentenza del 1948 circa la posizione (del tutto analoga a quella del Priebke) dei coimputati del Kappler, avendo il più recente dibattimento semmai potuto rafforzare «l'opinione di una provenienza primaria dell'ordine di rappresaglia da Hitler».
Si osserva, comunque, che troppo superficialmente viene affermato nella sentenza lo stesso carattere illegittimo della rappresaglia, giacché la ritenuta sproporzione «certamente possibile ad affermarsi alla luce della semplice considerazione aritmetica, appare invece insussistente ove si tenga presente che la stessa (...) viene ad essere esclusa in ragione della "casistica" formatasi nei diversi Tribunali internazionali nel dopoguerra», a tale riguardo richiamando un parere del prof. Seidler in atti.
Quanto, poi, alla ritenuta insussistenza dello stato di necessità, si evidenzia, da un lato, che è «conforme a realtà e a logica che il mantenimento della disciplina in una struttura militare» abbia necessitato «di una risposta tanto più pronta, tanto (rectius: quanto) più il mantenimento della struttura medesima venga posto in discussione da appartenenti alle "superiori gerarchie"» e senza che la remota pregressa adesione dell'imputato Priebke alle S.S. possa configurarsi come volontaria causazione del pericolo; d'altro lato, che non vi sarebbe stata sproporzione tra il pericolo e l'offesa cagionata, stante l'incombenza della minaccia di fucilazione per coloro che si fossero sottratti all'ordine.
In ulteriore subordine si deduce l'insussistenza delle contestate aggravanti. In particolare, e quanto alla premeditazione, se ne sostiene «la sicura non estensibilità all'imputato ... anche a prescindere dall'attuale formulazione dell'art. 118 c.p.» poiché costui, non avendo partecipato ai momenti decisionali che hanno caratterizzato la preparazione e l'esecuzione dell'eccidio non ha dimostrato quella pervicacia del proposito criminoso, nella riflessione maturata con riferimento alle modalità di realizzazione del fatto, che rende maggiormente punibile il reato e altresì non oggettivabile una circostanza intrinsecamente soggettiva, ancor prima della riforma del 1990. Tali rilievi a prescindere da quelli ulteriori relativi alla pretesa ultrattività della precedente formulazione della norma, che l'atto d'appello sviluppa nel punto relativo alla prescrizione.
Quanto alla circostanza dell'aver agito con crudeltà, essa non sussisterebbe con specifico riferimento alla posizione del Priebke, il quale non ebbe alcuna parte nelle scelte circa le modalità, pur orrende, di esecuzione dell'eccidio.
Richiesta ancora subordinata di riforma della sentenza concerne la ritenuta imprescrittibilità del reato. Si rileva, in proposito, che il richiamo all'art. 23 c.p.m.g. è inconferente, stante il tenore letterale della norma relativo alle sole pene edittali e non anche agli elementi di concretizzazione della sanzione quali le circostanze e che, anche a voler ritenere applicabile la normativa precedente al 1974, giudicata più favorevole dopo aver operato un giudizio di prevalenza delle aggravanti, l'imprescrittibilità reato del quo non potrebbe conseguirne perché l'ergastolo non è comunque pena che derivi dalla previsione edittale, cioè «pena stabilita dalla legge» per tale reato, non potendosi qualificare come imprescrittibile un reato sol perché in concreto si ritenga sussistente un'aggravante comportante una pena di specie diversa.
Come richiesta estremamente subordinata si denuncia «l'assoluta ingiustizia della pena irrogata», dovendosi comunque pervenire alla declaratoria di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, in virtù dell'irreprensibile condotta serbata dall'imputato negli oltre cinquanta anni dalla commissione del fatto.
1.2.5. Questa Corte, infine, con ordinanza in data 17 dicembre 1997, ha interpretato come atto di appello un'istanza a firma dell'avv. Oreste Bisazza Terracini, il quale, difensore di alcune parti civili già costituitesi in primo grado, chiede che la sopra illustrata sentenza venga corretta nella parte in cui leggesi (p. 118) che la costituzione delle parti civili Davide Limentani, Alberto Di Porto, Emilia Mieli, Angelo Fatucci, Orietta Mieli e Sergio Marino «deve intendersi revocata, ai sensi dell'art. 82, comma 2, c.p.p., non avendo le stesse presentato conclusioni a norma dell'art. 523 del codice di rito» e, quindi, nulla disponendo in ordine al risarcimento del danno anche a favore delle persone suindicate.
2. Il dibattimento di appello si è svolto, nella sola contumacia dell'imputato Hass, dal 27 gennaio 1998 alla data odierna, in cui hanno avuto complessivamente luogo dieci udienze, ad alcune delle quali l'imputato Priebke ha espressamente rinunziato a comparire.
Nella prima udienza questa Corte ha dichiarato inammissibile, perché presentato fuori termine, l'appello come sopra proposto da alcune delle parti civili, rappresentate e difese dall'avv. Bisazza Terracini.
Nell'udienza del 29 gennaio è stata rigettata un'istanza avanzata dalla difesa dell'imputato Priebke di rinnovazione parziale del dibattimento per procedere all'esame del teste Maria Pia Ales o Maria Pia Fonzi.
Non è stata chiesta né è stata data lettura di atti del giudizio di primo grado o di atti compiuti nelle fasi precedenti.
Le parti hanno illustrato le proprie conclusioni e le hanno formulate come segue.
Il Procuratore generale militare ha chiesto che in parziale riforma dell'appellata sentenza gli imputati vengano entrambi condannati alla pena dell'ergastolo, previa esclusione di ogni circostanza attenuante.
I difensori delle parti civili si sono associati alle richieste del procuratore generale, presentando conclusioni scritte ed allegando relativa parcella.
La difesa di Hass ha chiesto che, in riforma dell'appellata sentenza l'imputato venga, in via principale, assolto dal reato ascrittogli per aver agito per ordine del suo superiore o comunque per non essersi potuto sottrarre all'esecuzione dell'ordine stesso; ed, in via subordinata, prosciolto dichiarandosi non doversi procedere essendo il reato estinto per prescrizione, tenuto conto delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62 bis c.p.; 59, n. 1 e 2, c.p.m.p.
La difesa di Priebke, ha dichiarato di riportarsi a quanto esposto nell'atto di impugnazione.
3. I motivi di appello proposti dalla difesa sono infondati. I motivi di appello proposti dalla pubblica accusa sono fondati nei limiti di cui alla motivazione che segue. La sentenza impugnata deve essere pertanto parzialmente riformata, limitatamente alla pena da irrogare ad entrambi gli imputati.
3.1. Questione da esaminare in via preliminare è quella contenuta nell'appello proposto dai difensori del Priebke, già sollevata e respinta in primo grado, relativa alla esistenza di una preclusione processuale che imporrebbe a questa Corte l'immediata declaratoria di improcedibilità nei confronti degli odierni imputati. Tale preclusione sarebbe rappresentata dalla sentenza pronunciata il 20 luglio 1948 dal Tribunale militare territoriale di Roma nei confronti di Herbert Kappler e di altri cinque ufficiali e sottufficiali tedeschi che avevano preso parte all'eccidio delle Cave Ardeatine, ed intervenuta sulla base di una imputazione valutata dagli appellanti come «assolutamente sovrapponibile dal punto di vista oggettivo» rispetto a quella oggetto dell'odierno processo. Come sopra riportato, l'atto di appello si diffonde sul punto, proponendo una argomentazione volta, in sostanza, a dimostrare l'esistenza di un collegamento funzionale fra tre norme del codice di rito: l'art. 630 lett. a), l'art. 649, comma 1, e l'art. 669, comma 8. Per effetto di esso, quando la presenza di una sentenza irrevocabile di assoluzione si fonda sui medesimi fatti che vengono imputati ad altre persone in modo tale che l'eventuale condanna di queste non potrebbe che determinare un c.d. conflitto teorico di giudicati - cioè la situazione descritta nell'art. 630, lett. a) -, l'ordinamento conoscerebbe un rimedio preventivo atto a scongiurare l'obbligo di celebrare un processo inutile, al termine del quale l'eventuale sentenza irrevocabile di condanna sarebbe destinata alla caducazione ex art. 669, comma 8: rimedio consistente nella declaratoria di improcedibilità ex art. 649. Simile congegno non troverebbe ostacolo letterale nella formulazione di queste ultime due norme, che inequivocabilmente e pur sempre si riferiscono a più processi intentati nei confronti della medesima persona, giacché sarebbe possibile una loro estensione analogica "in bonam partem" per via dell'identità di ratio sottesa alle due fattispecie, e non essendo altrimenti giustificabile una diversità di disciplina.
La costruzione esegetica proposta è indubbiamente suggestiva e trova anche parziale conferma in una recente decisione delle Corte di cassazione (Sez .III, 10 luglio 1996, Petrino, citata nell'appello e precedentemente nella stessa sentenza impugnata). Ciò nonostante, questa Corte si ritiene dispensata dall'accertare la piena fondatezza della conclusione ultima a cui perviene - e, cioè, che il "ne bis in idem" opera anche nei confronti del concorrente nel medesimo reato - poiché nel caso di specie non ravvisa la sussistenza delle relative premesse. Invero, come riconoscono gli appellanti, il problema sorge quando un «cartolare» confronto del fatto posto a base della sentenza assolutoria con quello oggetto dell'imputazione preannuncia la sicura instaurazione di un conflitto teorico di giudicati (inconciliabilità dei fatti di base) laddove il giudice della cognizione dovesse pervenire al giudizio di penale responsabilità; in questo caso sarebbe, all'evidenza, in primo luogo logico porsi il problema di estendere l'area operativa del giudicato dall'ambito formale della certezza del diritto dal punto di vista soggettivo a quello della coerenza logica tra giudizi, quali ne siano i destinatari specifici.
Nel caso di specie, però, non si ravvisa una tale situazione. Non tanto per il rilievo - piuttosto formale - che si legge nella sentenza impugnata, secondo cui «ciascuna posizione concorsuale è autonoma e potenzialmente diversa rispetto ad ogni altra», perché pur in presenza di tale autonomia potrebbero prospettarsi situazioni di inconciliabilità rilevanti ex art. 630, lett. a), c.p.p.; ma in quanto perché l'esito di quel confronto «cartolare» invocato dalla difesa - lo stesso che in sede di revisione darebbe luogo al giudizio rescindente - non configura inequivocabilmente la prospettiva del conflitto teorico. Agli odierni imputati viene contestato di essere concorsi nell'eccidio delle Cave Ardeatine insieme con altri militari, alcuni dei quali giudicati precedentemente. La sentenza del 1948 non contiene la ricostruzione di alcun fatto, che sarebbe logicamente incompatibile con l'affermazione di responsabilità degli odierni imputati in base alle contestazioni sopra esposte; in tale sentenza si legge, infatti, che il fatto storico si è verificato, che la sua realizzazione non trovava alcuna giustificazione sul piano oggettivo e che quindi si trattava di un fatto oggettivamente illecito. Quanto, poi, alla posizione dei singoli concorrenti, mentre uno di essi (il Kappler) veniva condannato, essendone stata affermata la penale responsabilità, gli altri venivano assolti in punto di dolo. Non si vede, allora, quale preclusione possa derivare mai da una tale pronuncia irrevocabile, la quale, sulla premessa dell'oggettiva illiceità del fatto di concorso contestato, ha diversificato la posizione dei singoli concorrenti. Sotto questo profilo, l'odierno processo, lungi dall'essere precluso, rappresenta l'ideale prosecuzione e, al contempo, un completamento di quello a suo tempo celebrato, e proprio per fare esso riferimento alla specifica posizione di altri due concorrenti nello stesso fatto all'epoca giudicato illecito.
Sicché, il confronto con la sentenza irrevocabile del 1948 non impedisce di procedere oltre, fermo restando che di volta in volta questo giudice dovrà accertare che singoli accertamenti o valutazioni non si pongano in contrasto con il precedente giudicato, e quindi che siano processualmente consentiti.
3.2.1. L'esame del merito propone subito il tema del controllo probatorio da operare sulla ricostruzione degli «eventi» contenuta nella citata sentenza del 1948, recepita definitivamente nella sentenza del Tribunale supremo militare in data 25 ottobre 1952. La sentenza impugnata fa propria la narrazione degli eventi presente in tale ultima sentenza, che, ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., dichiara di recepire e di condividere integralmente.
Vero è che la difesa ha rilevato, nella discussione orale, una contraddizione tra la declaratoria di inammissibilità della questione di rito testé esaminata e il pieno recepimento con efficacia probatoria della sentenza del 1952, a sua volta recettiva delle acquisizioni fattuali operate nella sentenza del 1948, come premessa per l'affermazione della penale responsabilità degli odierni imputati; ma, la denunciata contraddizione non sussiste per le stesse ragioni sopra evidenziate, essendosi rilevato che il tenore di tali precedenti lascia spazio ad acquisizioni e ricostruzioni aggiuntive pur se complementari, con riferimento alle posizioni di Hass e di Priebke.
Va piuttosto osservato in via generale, ad avviso di questa Corte, che, intanto, il materiale probatorio ricavabile ex art 238 bis c. p.p. non può derivare, per forza di cose, da una sentenza in sé, cioè dalle narrazioni e dai ragionamenti induttivi ivi contenuti, i quali non costituiscono «prove» ma statuizioni giudiziali sulle prove e che quindi ciò che propriamente filtra nell'odierno processo con valore probatorio sono le stesse prove raccolte nel processo che hanno dato luogo alla sentenza richiamata.
A prescindere da questa puntualizzazione, comunque, nel caso specifico, il recepimento della ricostruzione in fatto degli eventi di base contenuta nelle due sentenze precedenti sopra citate non può avvenire in modo «integrale», perché alla luce del vaglio critico da operare pur sempre ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p. (contenente una regola di giudizio richiamata espressamente dall'art. 238 bis), essa si dimostra bisognevole di alcune rettificazioni ed integrazioni. In particolare ciò scaturisce da un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo perché le due precedenti sentenze contengono una narrazione di quanto accaduto a Roma il 23 e il 24 marzo 1944, indubbiamente ricavata dal materiale probatorio disponibile all'epoca, ma spesso senza fornire indicazione delle specifiche relazioni tra fatti accertati e evidenze probatorie utilizzate, cosa che rende arduo il confronto fra il ragionamento seguito dal giudice e le sue fonti; in secondo luogo perché sono sopravvenute alcune risultanze probatorie che impongono una attenta riconsiderazione di alcuni punti o passaggi di quella narrazione.
3.2.2. Uno di questi ultimi particolarmente meritevole di approfondimento è quello concernente la ricostruzione della dinamica di formazione e di veicolazione dell'ordine ricevuto dal Kappler relativo alla uccisione degli «ostaggi» italiani a titolo di «rappresaglia» per l'uccisione dei soldati tedeschi in Via Rasella. A tale proposito la sentenza del 1948 (come riassunta nella sentenza del 1952 del Tribunale supremo militare) prende in esclusiva considerazione quanto riferito dal Kappler nella lunga deposizione dibattimentale iniziata il 31 maggio 1948. Le relative dichiarazioni, tuttavia, non sempre si accordano con le risultanze dei processi a carico di Kesselring (p. 273 ss. del vol. IV del fascicolo per il dibattimento), di Mackensen e Mältzer (p. 364 ss. del vol. IV del fascicolo per il dibattimento) e con le sopravvenute dichiarazioni del teste Dietrich Beelitz, assunte per rogatoria in data 30 novembre 1995 dalla Procura di Dortmund (di cui alla lett. "t" dell'ordinanza in data 24 giugno 1997 del Tribunale militare di Roma, relativa all'utilizzabilità degli atti).
Non va sottaciuto che la possibilità di stabilire come siano andate realmente le cose è compromessa dal fatto che le versioni fornite provengono da diretti interessati e, quindi, possono risentire della preoccupazione di dover sminuire in qualche modo, se non di scansare, personali responsabilità per i noti eventi. Ciò nondimeno, è senz'altro preferibile dar conto di eventuali divergenze insanabili, piuttosto che avallare acriticamente delle supposte "verità" di cui si dispone. In particolare, l'insieme delle risultanze di cui sopra consente solo di dubitare circa l'esatto contenuto dell'ordine di fucilazione degli «ostaggi italiani», circa la sua provenienza, circa la sua esecutività, circa le modalità con cui è stato veicolato al Kappler. Ciò in base alle seguenti considerazioni.
Nell'unico colloquio telefonico tra Kappler e Mackensen avvenuto nel pomeriggio del 23 dopo le ore 17, i due concordarono di limitare la rappresaglia ai condannati a morte o all'ergastolo ed agli arrestati per reati per i quali era prevista la pena di morte, la cui responsabilità fosse stata accertata in base alle indagini di polizia, essendosi espresso il comandante la XIV armata nel senso che se non si fosse raggiunto un numero di persone sufficiente nell'ambito di tali categorie, egli si sarebbe «accontentato» della fucilazione di un numero inferiore a quello risultante dal rapporto da uno a dieci, salvo dichiarare falsamente ai superiori di aver comunque rispettato tale proporzione. Ciò risulta dalle concordi dichiarazioni dei due interlocutori e dalla testimonianza Beelitz. V'è da aggiungere che, sino a questo momento, l'interessamento del Kappler alla vicenda, come organo di polizia, era giustificato dalla ritenuta necessità di reperire i morituri nell'ambito delle categorie suddette, di per sé importante la piena collaborazione tra polizia di sicurezza e organi militari (al riguardo il Kappler riferisce esservi stato, infatti, un accordo di carattere generale tra Harster, capo delle SS in Italia, e Kesselring, Comandante militare supremo della Wehrmacth per il Sud-Ovest).
Senonché, i termini dell'accordo mutarono sensibilmente quando il Kappler, a suo dire, ricevette, attorno alle ore 20 della stessa giornata, una telefonata dall'ufficio del Mältzer (interlocutore il magg. Böhm) con la quale si comunicava che entro 24 ore doveva comunque essere fucilato un numero di italiani decuplo rispetto al numero dei tedeschi morti, conformemente ad un ordine di Kesselring. Il Kappler, resosi conto che non si trattava della stessa misura concordata con il Mackensen, dichiara di aver allora telefonato al comando dell'OBSW e di aver parlato con un ufficiale il quale gli avrebbe sia confermato il tenore dell'ordine che rivelato come esso provenisse non già da Kesselring, ma da «molto più in alto». Dichiara, altresì, di non aver mai parlato direttamente con il Kesselring, avendo rinunciato a tale contatto e a ogni tentativo di proporgli una «esecuzione diversa», tipo quella concordata con il Mackensen, dato che l'ordine proveniva presumibilmente dallo stesso Hitler.
La versione di Kappler non concorda, però, con quanto riferito dal teste Beelitz, oltreché con quanto dichiararono a suo tempo Kesselring e Mackensen. Il primo, ufficiale di stato maggiore dell'OBSW e uomo di fiducia di Kesselring, sostiene che solo alle successive ore 23 pervenne l'ordine di Hitler, trasmesso dal gen. Jodl, di fucilare comunque dieci «ostaggi» italiani per ogni soldato tedesco ucciso, aggiungendo che «l'organizzazione è affidata alla polizia politica (SD)» e che la comunicazione era «esecutiva fino al 24 marzo 1944». Su tale punto ribadisce che «non fu ordinato: "eseguire entro 24 ore"» e dichiara di aver capito allora che l'armata sarebbe rimasta ormai al di fuori della faccenda, avendo esclusivamente il compito di trasmettere l'ordine. Ricorda che Mältzer «ricevette un ordine separato, di tenersi completamente al di fuori della cosa».
Kesselring ebbe, invece, a dichiarare al processo di Roma contro Mackensen e Mältzer di aver ricevuto contemporaneamente l'ordine di Hitler e una comunicazione telefonica di Kappler, in cui costui si manifestava soddisfatto di poter fornire il numero di coloro che dovevano essere fucilati oltre a quelli che erano stati regolarmente condannati a morte, con ciò palesando di conoscere già l'ordine di Hitler. Mackensen, dal canto suo, si era dichiarato convinto di aver sempre ordinato l'uccisione di persone che altrimenti sarebbero state comunque uccise, e ciò solo dopo aver avuto assicurazione dalle SS della disponibilità di un numero di morituri comunque in misura tale che potesse essere rispettata la proporzione di uno a dieci.
Analoga assicurazione, peraltro, aveva ricevuto il console Möllhausen quando, recatosi a suo dire «a trovare Kappler nel suo ufficio» la sera del 23, ebbe da costui la seguente risposta di fronte all'invito a non consegnare al plotone di esecuzione degli innocenti: «tutti coloro che verranno designati, saranno o già condannati a morte, o, colpevoli al punto tale da essere sicuri candidati alla morte. Passerò la notte ad esaminare coscienziosamente caso per caso. Non ci saranno ingiustizie» (in «La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943- 2 maggio 1945», Roma, 1948, p. 223, acquisito agli atti come da ordinanza in data 24 giugno 1997, lett. "z").
Sulla base di tali risultanze, e pur considerando che ognuno cerca comprensibilmente di scansare da sé le principali responsabilità, si possono fare alcune osservazioni in ordine a quanto sintetizzato. La versione degli accadimenti fornita da Kappler non può pienamente convincere. In primo luogo, dopo l'accordo per una soluzione "morbida" intervenuto con Mackensen, sarebbe stato logico che, a fronte della comunicazione dell'ordine più rigido avuta da Böhm (collaboratore diretto di Mältzer) e riferibile a Kesselring, Kappler avesse nuovamente contattato Mackensen o, comunque, lo stesso Kesselring, quantomeno per manifestare a costoro le difficoltà per raggiungere il numero richiesto, oltretutto nel breve tempo stabilito. Kappler invece, e sempre a suo dire, così come si era accontentato di parlare con Böhm, egualmente evitò di parlare con Kesselring; ovvero - se si vuol credere a quest'ultimo - rappresentò a costui addirittura che non aveva alcuna difficoltà ... ad eseguire l'ordine alla lettera! Prende allora corpo la possibilità che il Kappler, avendo constatato che i capi della Wehrmacht - e segnatamente Mackensen - propendevano per una linea "morbida", abbia voluto evitare ulteriori personali contatti con costoro una volta ricevuto l'ordine direttamente dal quartier generale di Hitler. Anzi, non è neppure da escludere che egli si sia fatto parte diligente, attraverso i capi delle SS, per fare in modo di ricevere direttamente tale ordine senza passare per la linea di comando della Wehrmacht. Ciò spiega perché egli conoscesse il tenore dell'ordine di Hitler prima che ciò fosse noto all'OBSW, e perché in quell'ordine si incaricava dell'esecuzione - non solo della redazione delle liste - la polizia di sicurezza, cioè Kappler stesso. Di conseguenza, è estremamente probabile che l'ordine proveniente dal quartier generale di Hitler, sollecitato dallo stesso Kappler, anche per il tramite del gen. Harster, avesse seguito un duplice canale: direttamente, attraverso la linea occulta SD; per via gerarchica, attraverso la Wehrmacht. Ciò che accadde in seguito, alle ore 12 del 24 marzo, nella stanza del Mältzer - con il Dobrick e l'Hauser che declinano l'offerta di eseguire il massacro - fu dunque il risultato di una "sceneggiatura" orchestrata dallo stesso Kappler, il quale sapeva già dalla sera prima di dover provvedere in prima persona, e con la massima urgenza per evitare ulteriori ostacoli, alla esecuzione dell'eccidio.
Che egli fosse in questo stato d'animo è provato non solo dalla circostanza che l'ordine di Hitler conteneva anche la designazione degli incaricati, ma dal fatto che - a detta dello stesso Kappler - alle nove del mattino il comandante delle SS di Roma incontrò il magg. Hass - odierno imputato - e conversando con costui gli disse «che la ruota che girava poteva essere fermata se ci veniva in mano l'attentatore oppure una offerta della popolazione» e che al riguardo egli avrebbe «preso come spunto, per non fare la rappresaglia, anche una minima collaborazione» (v. dich. all'udienza del 7 giugno 1948 del Tribunale militare territoriale di Roma, f. 153 del verbale). Ciò dimostra che, prima ancora delle ore 12, il vero dominus dell'esecuzione del massacro era Kappler con le sue SS e che la Wehrmacht era stata bypassata già la sera precedente, non appena aveva mostrato atteggiamenti più cauti ed equilibrati.
Non solo, ma vi è anche un'altra prova del fatto che Kappler fosse a conoscenza del dovere di eseguire la fucilazione prima delle ore 12. Nella sua narrazione riferisce che, dopo aver ricevuto tale ordine dal Mältzer, riuniva i suoi uomini e comunicava loro l'incombente, impartiva le istruzioni per il massacro, incaricava Köhler di recarsi alle Cave Ardeatine in ispezione, attendeva il ritorno di costui (dopo circa 5O minuti ciò avvenne), si recava alla mensa (anche se non per mangiare), ivi apprendeva della morte del trentatreesimo soldato tedesco e conseguentemente disponeva per l'inserimento nelle liste di altri dieci ebrei prontamente dichiarati disponibili. Non poche attività, se si considera che egli dichiara di essere uscito dall'ufficio del Mältzer alle 12,30, di essersi recato a mensa alle 13 e di aver avviato il primo camion della morte da Via Tasso alle 14 («e forse più tardi»).
Due ore tra il ricevere l'incarico e passare ad eseguirlo sembrano davvero poche! Soprattutto avrebbe dovuto richiedere del tempo l'invio in ispezione del Köhler e di ufficiali del Genio alle Cave Ardeatine, e di un tempo sicuramente incompatibile con la scansione proposta dal Kappler. Probabilmente l'ispezione alle Cave era stata effettuata sin dal mattino, ma ciò Kappler non l'ammette perché sarebbe come ammettere che già sapesse di essere il designato da Hitler. Solo che a collocare l'ispezione delle Cave alla mattina non soccorre esclusivamente la logica, ma anche il teste Cecconi, il quale, all'udienza dinnanzi al Tribunale militare di Roma, in data 5 giugno 1997, dichiara di aver visto due ufficiali tedeschi ispezionare le cave la mattina del giorno 24. Con ciò sappiamo non solo che il Kappler conosceva anzitempo l'integrale ordine di Hitler, ma che non aveva perso tempo ad organizzarsi, comunicando quanto meno a due suoi ufficiali (Hass e Köhler) la notizia della designazione.
A parte ciò, lo zelo poi mostrato dal Kappler e dai suoi aguzzini nell'esecuzione del folle ordine dimostra di per sé quanto esso fosse, senza la benché minima remora, condiviso dagli esecutori. Il Kappler non oppose la minima difficoltà di fronte ai suoi superiori militari, non inventò il minimo pretesto per ritardare l'esecuzione, eppure ne avrebbe potuti trovare a volontà; finì, persino, per comportarsi in maniera opposta a quanto concordato con Mackensen: invece di uccidere un numero di persone inferiore a quanto poi dichiarato ufficialmente, riuscì a farne massacrare quindici di più, salvo nascondere a lungo la scomoda eccedenza. Eppure, già la sera stessa del tragico giorno 24, mostrò di essere un fine interdittore - stando a quanto lui stesso dichiara (udienza 8 giugno 1948, f. 185 del verbale) - allorquando concepì l'idea di opporsi con decisione al pazzesco piano, che il Wolff gli aveva manifestato, di far evacuare da Roma tutti gli uomini di età compresa tra i 15 e i 65 anni. Così egli si esprime: « Io ero fermamente deciso di non far condurre tale piano alla conclusione. L'ordine sarebbe dovuto pervenire da Wolf, da Kesselring e dal Führer, ma io non l'avrei eseguito. Non mi sarei rifiutato apertamente perché un altro l'avrebbe eseguito. Così in quella notte decisi di sabotare l'ordine».
Come si vede, ben altro atteggiamento rispetto a quello mostrato dinnanzi all'ordine di eseguire il massacro degli innocenti delle Cave Ardeatine - forse perché con l'evacuazione da Roma della popolazione maschile anche lui avrebbe dovuto lasciare tale città che prediligeva -, che la dice lunga sul potere e sul cinismo di Kappler, incompatibile con la versione di sé che egli cerca di accreditare nella ricostruzione delle vicende relative all'ordine di esecuzione della strage.
Analoghe considerazioni si ricavano dalle memorie del console Möllhausen (p. 222 del libro sopra citato) il quale, dopo aver espresso i propri dubbi circa la provenienza dell'ordine di «rappresaglia», scrive quanto segue: «Comunque, che ciò sia stato suggerito dagli uni piuttosto che dagli altri, sta di fatto che Kappler accettò l'ordine senza fare obiezioni».
Peraltro nella sua fluviale deposizione dinanzi al Tribunale militare territoriale di Roma, Kappler stesso dichiara anche di ritenere l'ordine ricevuto perfettamente legale e di averlo eseguito in quanto convinto di ciò, tanto è vero che «più di una volta, quando l'ordine fu ritenuto illegale non fu da me eseguito» (udienza del 4 giugno 1948, f. 126 del verbale; analogamente, udienza del 7 giugno 1948, f. 161 del verbale).
Né è difficile scorgere quale interesse potessero avere il Kappler e la sua banda all'esecuzione della strage, con la portata, la rapidità e le modalità che in concreto l'hanno tragicamente caratterizzata. L'attentato di Via Rasella si era risolto in un danno trascurabile sul piano militare, considerata anche la scarsa importanza operativa del Btg. Bözen, ma costituiva un "vulnus" imperdonabile alla specchiatezza del profilo del Kappler come ufficiale in carriera, un colpo che poteva rivelarsi decisivo al suo prestigio di spietato ed efficiente controllore del territorio: alla prova di inefficienza in cui esso si era platealmente risolto doveva necessariamente ed immediatamente far seguito una prova di grande efficienza operativa, che, tra l'altro, gli avrebbe consentito di togliere di mezzo senza ulteriori "lungaggini" scomodi personaggi della resistenza romana, data l'impercorribilità, soprattutto in tempi tanti ristretti, della strada alternativa rappresentata dalla cattura dei responsabili dell'attentato.
Dunque, l'ordine formalmente ricevuto da Kappler alle ore 12 del 24 marzo 1944 dal gen. Mältzer era di dubbio contenuto, di dubbia portata e di dubbia operatività, dubbi tutti autonomamente sollevabili dal destinatario, a cui erano ben presenti, ma maliziosamente lasciati irrisolti.
A ciò si aggiunga che trattavasi persino di un ordine di dubbia provenienza, giacché la riferibilità alla persona di Hitler che tutti tendono, per ovvi motivi non disenteressatamente, ad accreditare non sembra facilmente coniugabile con i tentennamenti e le incertezze registrate. Si pensi alla risposta che il Beelitz riferisce di aver dato a fronte del preteso primo ordine di un Hitler - contestualmente definito «furioso» per l'accaduto - di uccidere almeno trenta italiani per ogni tedesco: «Io obiettai che questa richiesta non sarebbe mai stata accettata dal gen. Kesselring. In seguito a ciò, il Gen. Freiherr von Buttler ordinò che si sarebbe dovuto comunicare immediatamente quali provvedimenti l'OBSW avesse giudicato come necessari». Si pensi, inoltre, alla anomalia di un ordine avente come destinataria la polizia politica e trasmesso per i canali della Wehrmacht, che non si erano certo dimostrati rigidi ed acquiescenti.
A fronte di tante incertezze, sta l'atteggiamento risoluto del Kappler, il quale, lungi dal frapporre facili ostacoli, soltanto in poche ore era stato in grado di mettere in piedi un perfetto ingranaggio di morte che avrebbe dovuto, oltre che vendicare il sangue tedesco versato, reintegrare la sua immagine di efficiente e fedele servitore del Führer.
Egli approfitta delle incertezze dei suoi superiori per cucirsi un ordine sufficientemente spietato, ma anche suscettibile di una astratta «copertura» giuridica, quale quello «impartitogli» dall'ingenuo quanto irriflessivo Mältzer. In questo senso si spiega perché nelle numerose conversazioni telefoniche si fosse riferito ambiguamente a liste di «Todeskandidaten» o a «todeswürdige», come mai si sia attivato per ricevere l'avallo dei giudici militari (udienza del 4 giugno 1948, f. 129 ss.); e come mai, in definitiva, egli finisce per eseguire un ordine non corrispondente né a quello riconducibile a Hitler, che si riferiva indistintamente a «ostaggi italiani», né a quello di Mackensen, che invece si riferiva a condannati a morte, pur se in proporzione numerica inferiore.
3.2.3. Altro punto da rimettere a fuoco nella ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza del 1948 riguarda la spiegazione del perché risultassero uccise alle Cave Ardeatine cinque persone in più rispetto alla voluta proporzione di uno a dieci. Anche su tale questione il Tribunale militare territoriale di Roma recepisce acriticamente quanto riferito dal Kappler, concludendo che la morte delle cinque persone fosse da rimandare alla «straordinaria negligenza» dei capitani Schütz e Priebke, i quali «preposti alla direzione dell'esecuzione ed al controllo delle vittime, nella frenetica foga di effettuare l'esecuzione con la massima rapidità, non s'accorsero che esse erano estranee alle liste fatte in precedenza» e che di tale «errore» il Kappler venne a conoscenza solo il successivo giorno 25, allorquando il Priebke ebbe a riferirglielo.
La versione, evidentemente dettata dalle legittime aspirazioni difensive del Kappler, già appariva intrinsecamente poco credibile, non solo perché in contrasto con il fanatismo delle SS di effettuare una accurata conta dei morti in modo da rispettare scrupolosamente l'agghiacciante proporzione, ma soprattutto perché la riferita relazione del Priebke al Kappler era apparsa infondata persino agli stessi giudici del 1948. Infatti, il Priebke si sarebbe accorto dell'eccedenza solo sulla base di un successivo «riesame delle liste» a seguito del quale egli aveva constatato che la lista italiana proveniente dal Caruso, non contrassegnata da numeri progressivi, conteneva 55 nominativi e non 50; tuttavia, era risultato ai giudici che in base al riconoscimento delle salme, avvenuto allora già per 332 persone, 49 di esse erano persone a disposizione dell'autorità italiana e corrispondevano a 49 nominativi della lista italiana, sicché all'evidenza conseguiva che le cinque persone fucilate in più dovevano provenire dal gruppo di detenuti "a disposizione" dell'autorità tedesca.
Cio nonostante quei giudici non respingevano integralmente la versione fornita dal Kappler; anzi, sulla base di essa, la sentenza in punto di diritto qualifica l'uccisione di tali persone imputabile al Kappler solo in forza dell'art. 82 c.p., in quanto determinata da un «errore» riconducibile alle «insufficienti ed inopportune direttive» da questi impartite per l'esecuzione. E' appena il caso di notare che, anche a voler seguire la ricostruzione del fatto come ora sintetizzata, si sarebbe dovuto parlare di «errore» solo in senso improprio, attenendo esso non alla eziologia dell'evento, e quindi ad una «causa» rilevante ex art. 82 c.p., ma ai motivi a delinquere; tale «errore» non avrebbe in ogni caso inciso sulla pienezza del dolo degli agenti, dal momento che la morte delle cinque persone in questione sarebbe pur sempre stata provocata con coscienza e volontà dai concorrenti, a nulla rilevando in punto di dolo che essi avessero l'intenzione di ucciderne in numero inferiore.
Ma, a prescindere da ciò, è la stessa spiegazione dei fatti che non convince. Sul punto, la sentenza impugnata (v. sopra, § 1.1.5), sulla base di una riconsiderazione logica delle emergenze probatorie già disponibili nel 1948 e di una dichiarazione dell'imputato Hass resa all'udienza del 19 giugno 1996 in occasione del primo processo celebrato dinnanzi al Tribunale militare di Roma, giunge alla ben diversa conclusione che il Kappler, informato dal Priebke della presenza di cinque persone in più, abbia ordinato anche l'uccisione di costoro, «cedendo alla tentazione di eliminare persone che, alla fine della guerra, li avrebbero con una testimonianza tanto diretta quanto precisa inchiodati alle loro responsabilità!». Gli appellanti giudicano tale conclusione «assolutamente irragionevole» e, con riferimento alla posizione del Priebke, rilevano che comunque, per giungere a ritenere costui responsabile anche della morte di tali persone, occorrerebbe dimostrare «che ciò non avvenne nel periodo in cui il Priebke non teneva le liste» e «quale sarebbe stato il contributo fornito dall'imputato» al riguardo, sul piano materiale o morale.
Questa Corte ritiene pienamente convincenti le diffuse argomentazioni che la sentenza impugnata illustra a supporto della conclusione sopra riferita, cui integralmente si riporta.
Quanto osservato in contrario dagli appellanti non appare consistente. Infatti, si fa notare che se la conta dei predestinati fosse stata fatta all'atto del prelevamento dal carcere, se non altro per verificare che il numero non fosse inferiore a quello voluto, non sarebbero giunte sul luogo cinque persone in più del necessario, ma tale osservazione non è determinante.
Innanzitutto - come rileva il Tribunale - risulta per certo che una persona in più giunse alle Cave, dal momento che il disertore austriaco Reider, caricato sull'autocarro in Via Tasso, venne poi venne fatto rientrare in quel carcere una volta scopertane la nazionalità; in secondo luogo, è ben possibile che oltre alle persone indicate nelle liste tedesche, e segnatamente nella famigerata Judenlist, fossero salite sui carri della morte altre persone perché convinte che sarebbero state avviate a lavorare in Germania o comunque per non separarsi dai propri cari. Pertanto si può ritenere che vi fu un controllo al momento della spedizione unicamente teso a evitare che potessero giungere alle Cave persone in numero non sufficiente e che vi fu un analogo controllo in occasione dell'ultimo e decisivo appello a cui era stato preposto ed attese il Priebke.
Neppure è decisivo il rilievo che, diversamente, i cinque sarebbero stati risparmiati, come avvenne per Reider. Infatti, costoro, individuati dai criminali come in sovrannumero, erano ormai indissolubilmente legati alla sorte di coloro che già erano stati trucidati, per comunanza di cittadinanza, e comunque di fede politica o religiosa, o di amicizia se non di parentela, sicché se si fossero salvati avrebbero avuto un ben maggiore interesse che non il Reider a propagare la notizia del massacro e a narrare le modalità disumane con le quali era stato svolto.
Resta confermata, quindi, la conclusione cui sul punto è pervenuta la sentenza impugnata, in difformità rispetto alla ricostruzione dei fatti operata nel 1948.
3.2.4. Occorre ora incentrare l'indagine in fatto circa il ruolo che i due imputati svolgevano nell'organizzazione romana delle SS (più esattamente R.S.H.A.) e circa le conseguenti modalità della loro partecipazione all'eccidio.
La sentenza impugnata (sopra § 1.1.3) approfondisce autonomamente, rispetto ai risultati cui erano approdati le sentenze del 1948 e del 1952, l'aspetto relativo allo specifico ruolo degli imputati all'interno del Comando militare tedesco di Via Tasso, giungendo alla conclusione che il Priebke vi svolgeva «un ruolo di preminente rilievo, partecipando ad operazioni di polizia, arresti, interrogatori, torture», mentre l'Hass aveva il proprio ufficio altrove e «godeva di una qual certa autonomia funzionale» nei riguardi dell'ufficio comandato dal Kappler. Da tale accertamento la sentenza impugnata ricava un diverso modo di partecipazione dei due imputati all'eccidio delle Cave Ardeatine, sul presupposto che, essendo l'organizzazione e l'esecuzione del massacro opera del Comando di Via Tasso, il ruolo operativo che i due imputati avevano all'interno di esso non avrebbe potuto che riflettersi nel caso specifico. In particolare si conclude che «il Priebke, diretto dipendente del Kappler, verrà chiamato a collaborare nella preparazione della strage, partecipando a formare gli elenchi dei martiri da passare per le armi e successivamente controllandoli al loro arrivo alla Cave in posizione di assoluta preminenza organizzativa, mentre l'Hass verrà chiamato a partecipare nella sola fase esecutiva».
La difesa del Priebke ha contestato, per un verso, tale ricostruzione del ruolo dell'imputato nel Comando di Via Tasso e, per altro verso, il fatto che egli, oltre a partecipare all'eccidio in qualità di tenutario delle liste, vi avesse svolto mansioni in posizione di assoluta preminenza organizzativa, sin dalla fase preparatoria.
A tale proposito e preliminarmente il Collegio, su una eccezione contenuta nell'atto di appello della difesa del Priebke, deve esaminare la utilizzabilità nei confronti del Priebke della sua dichiarazione redatta in lingua inglese e sottoscritta dal medesimo in data 28 agosto 1946 nel campo di prigionia alleato in Afragola (lett. "a" dell'ordinanza in data 24 giugno 1997 del Tribunale militare di Roma). Sul punto, rileva questo giudice che - contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata - la dichiarazione in parola non può essere acquisita come documento proveniente dall'imputato ex art. 237 c.p.p. perché trattasi di dichiarazione di scienza effettuata non per motivi e in occasione sicuramente extraprocessuale, ma in risposta a un preciso "input" investigativo, anche se non ancora univocamente direzionato nei suoi confronti, in previsione comunque di un possibile impiego processuale. Ciò si ricava senza dubbio dalla proposizione con cui si apre l'atto, specificamente sottoscritta, circa l'avviso ricevuto di non essere obbligato a dire alcunché e che ogni cosa detta avrebbe potuto costituire prova («may be given in evidence»).
Quindi, dovendo considerare la dichiarazione in questione vero e proprio atto processuale compiuto da autorità giudiziaria straniera, occorre verificare se sia esatta la conclusione della sua acquisibilità, cui è pervenuta comunque la sentenza impugnata in base all'art. 78, comma 1, disp. att. c.p.p. Ad avviso del giudice di primo grado a tale conclusione non osta «l'assoluta peculiarità della situazione in cui l'atto venne formato»; a conforto viene citata una sentenza della Corte di cassazione (Sez. I, 23 giugno 1993, Nicosia, m. 194.580), in cui però si precisa che «la validità degli atti dell'autorità straniera va valutata secondo i criteri dettati dalle norme processuali vigenti nello Stato in cui gli atti vengono assunti, salvo che queste si pongano in contrasto con i diritti fondamentali della persona e non assicurino il diritto di difesa dell'imputato».
Secondo Corte, a prescindere dalla valutazione sul contenuto della norma in base alla quale è stata raccolta la dichiarazione del Priebke, la circostanza che l'atto in questione venne sicuramente redatto sia in assenza di un difensore che in una situazione di prigionia impone di concludere che esso è stato formato proprio in violazione dei diritto di difesa dell'imputato, essendo la presenza del difensore, per di più in una situazione del tutto anomala ed incerta quale la prigionia di guerra, condizione essenziale per il rispetto di tale diritto. A fronte di un simile rilievo, non è convincente per la utilizzabilità dell'atto la pur perspicua considerazione formulata dal procuratore generale militare nella sua requisitoria, secondo la quale in materia processuale vige la regola "tempus regit actum", sicché, dato che all'epoca era consentito l'interrogatorio dell'imputato da parte della polizia giudiziaria senza la presenza del difensore in base alle stesse norme dell'allora vigente codice di procedura penale italiano, nessuna violazione sarebbe riscontrabile. Va, infatti, obiettato che, da una parte, l'affermazione di quel principio non è senza deroghe, proprio in materia di salvaguardia del diritto di difesa e dei diritti fondamentali della persona, dall'altra, che l'acquisizione avverrebbe pur sempre in forza del vigente art. 78 citato e in un processo celebrato nella vigenza di regole che non consentono in alcun caso quel tipo di assunzione probatoria senza la presenza del difensore. Si deve pertanto concludere, sul punto, che, in accoglimento dell'eccezione difensiva, della dichiarazione in questione non si può tenere alcun conto in questa sede.
Ciò posto e venendo al merito, ritiene il Collegio che dal materiale probatorio individuato dal giudice di primo grado, dalle deposizioni del Kappler, dalle stesse dichiarazioni - utilizzabili - del Priebke e dell'Hass, si possa senz'altro pervenire alla conclusione che il Priebke era, se non il principale, uno degli uomini di massima fiducia del Kappler nella organizzazione romana delle SS.
Ciò si ricava in primo luogo da quanto riferisce lo stesso imputato nel suo esame all'udienza preliminare in data 3 aprile 1996: «Io sono stato mandato da Berlino, nel febbraio del '41, come ufficiale di collegamento all'ambasciata tedesca di Roma, nell'ufficio di Kappler perché lui era solo ed io dovevo aiutarlo nel lavoro che era di tipo amministrativo; da lì viene detto che sono il secondo di Kappler; eravamo solamente in due ... quando è caduto il governo Badoglio l'ambasciata ha chiuso e si è formato il comando». Entrato nella polizia politica nel dicembre del 1936, come funzionario criminale, il Priebke svolge una brillante carriera anche grazie alla sua conoscenza delle lingue straniere; nel 1937 diventa Commissario nel ramo delle SS, con il grado di tenente; nel 1941 viene trasferito a Roma, come secondo di Kappler, risultando quindi avere con costui il più risalente rapporto di servizio. Di Kappler egli diviene «amico» e continua a sentirlo come tale anche nel periodo della sua detenzione in Italia, in espiazione dell'ergastolo (p. 28 della trascrizione dell'esame del Priebke all'udienza preliminare).
All'epoca dei fatti, quando l'ufficio «burocratico» del Kappler è già da tempo diventato un «comando» di polizia di sicurezza, dotato di numerosi ufficiali e organizzato in settori, corrispondenti ai settori organizzativi di tutte le R.S.H.A., il Priebke - promosso capitano nel 1943 - è assegnato all'ufficio IV (polizia politica) alle dipendenze del pari grado Cap. Schütz; tale ufficio si trovava in Via Tasso e da esso dipendeva il carcere sito nello stesso comprensorio (così nelle dichiarazioni del Kappler, rese il 4 agosto 1947, in sede di interrogatorio in istruttoria, f.19). A detta dello stesso Priebke, il Kappler gli assegnò il «compito ... di stare al fianco del Cap. Schütz per le relazioni con i privati, perché il capitano aveva un carattere irascibile e Kappler voleva evitare qualunque suo contatto con il pubblico italiano» (dichiarazioni spontanee all'odierna udienza). Lo Schütz era infatti noto per la sua arroganza e collericità, doti che agli occhi del Kappler lo rendono impresentabile all'esterno; il Priebke, ben più controllato e freddo, oltreché conoscitore della lingua italiana, era quindi la persona ideale per stemperare il clima in caso di necessità: un compito delicato che il Kappler assegna al suo collaboratore più fidato e che la dice lunga su quale fosse la reale gerarchia nell'organizzazione poliziesca di Via Tasso.
Nello svolgimento della sua attività presso quell'ufficio e in particolare nella conduzione del carcere Priebke svolse sicuramente un ruolo di primissimo piano quanto alle torture inferte ai prigionieri politici. Oltre alle concordanti ed eloquenti dichiarazioni elencate nella sentenza impugnata, sono anche da menzionare la dichiarazione di Ettore Artale resa l' 11 novembre 1946 (confermata il 5 dicembre 1946, dinnanzi al p.m., p. 1557 atti p.m.), il quale attribuisce al Priebke il comando delle carceri di via Tasso, aggiungendo «di queste sevizie ritengo costui direttamente responsabile», le testimonianze Ficca (udienza del 23 maggio 1997), il quale riferisce di essere stato interrogato da Priebke a Via Tasso sotto l'implicita minaccia dell'uso di un frustino, Tompkins (udienza del 5 giugno 1997), il quale riferisce di aver saputo da due partigiani che il Priebke picchiava, e Pellegrini (udienza del 23 maggio 1997), che pure riferisce di analoghe voci circolanti nel Carcere di regina Coeli.
A fronte di simili emergenze, scarsamente significativi sono gli elementi invocati dalla difesa. Il teste Guzzo (udienza 10 giugno 1997) esclude che, durante la sua detenzione, il Priebke direttamente usò nei suoi confronti violenza o sevizie; ma tale dichiarazione, in quanto tale, non può togliere attendibilità alle molte altre di segno contrario, per non essere con quelle logicamente inconciliabile. Egualmente dicasi per la relazione della Commissione alleata incaricata di individuare i responsabili delle torture di Via Tasso, la quale, non menzionando il Priebke, nemmeno può avere la forza di escludere, ove tale prova sia altrimenti ricavabile, che anche egli vi fosse coinvolto.
Del resto, rimane logicamente inconcepibile che il comandante di fatto di quel carcere non fosse a diretta conoscenza di cosa vi accadesse «istituzionalmente» e d'ordinario, e quanto meno non avallasse per ciò solo l'operato dei carcerieri.
Comunque, il tema della partecipazione del Priebke alle torture di Via Tasso non è oggetto di specifico accertamento in questo processo. Quanto emerso a tale riguardo è però più che sufficiente per comprovare il ruolo che l'imputato svolgeva nell'organizzazione romana delle SS e la sua figura di uomo di fiducia del Kappler. La prova su tale tematica non è automaticamente ricollegabile alla prova del ruolo che il Priebke ricoprì nell'esecuzione dell'eccidio delle Cave Ardeatine; ma si tratta, pur sempre, di un elemento significativo quanto al perché egli ricoprì quel ruolo così delicato ed importante, secondo ciò che pacificamente risulta dalle altre prove in atti. Va registrata, quindi, al riguardo piena coerenza tra la figura del Priebke, che è possibile delineare in generale con riferimento alle mansioni ricoperte di polizia repressiva, e quello che lo stesso fu chiamato a realizzare il 23 e il 24 marzo del 1944 e tale coerenza esonera di per sé dal dover ricercare ulteriori elementi di spiegazione.
Per quanto concerne le attività del Priebke in relazione all'eccidio va rilevato quanto segue. In primo luogo, il Priebke collaborò con il Kappler e altri ufficiali nella predisposizione delle liste. Egli lo fa capire nel suo stesso esame all'udienza preliminare del 3 aprile 1996, quando, pur negando in risposta a domanda diretta («la lista fu fatta da Kappler, Schütz e i sottufficiali della sezione quarta, loro hanno fatto la lista sicuri della storia politica di tutti i prigionieri», p. 38 della trascrizione), dice anche che Kappler «alle ore 8 (le 20 del 23 marzo) ha riunito tutti gli ufficiali e ha detto che sia lui, che tutti noi, dovevamo fare una lista per eventuali vittime». Del resto, sarebbe ben strano che delle liste si dovessero occupare tutti gli uomini della polizia politica ad eccezione di Priebke, cioè di uno dei principali collaboratori del Kappler, responsabile del carcere e artefice di molti interrogatori. Si consideri che il Kappler, per la predisposizione delle liste, dovette ricorrere a tutte le bande fasciste che conosceva, oltre che infine alla polizia italiana, sicché appare davvero poco probabile che si sia potuto permettere di esentare il Priebke da tale incombenza. Egli, invero, dice nella deposizione del 4 agosto 1945, unita agli atti: «Esaminai la lista dei prigionieri insieme con i miei ufficiali e con il loro aiuto» e tutto porta a credere che tra costoro ci fosse necessariamente anche il Priebke.
Ve ne è conferma diretta nelle dichiarazioni dell'Hass, all'udienza del 12 giugno 1996: alla domanda «chi predispose le liste?», egli rispose « Priebke, Kappler stesso. Kappler più in base a nomi ricevuti da fuori....da Caruso, per esempio, dalle autorità militari, dalla prigione privata dei fascisti». E' infatti plausibile che il Kappler impiegasse il proprio tempo per ricavare altrove i nomi, avendo lasciato ai suoi collaboratori la redazione della lista degli "interni".
La difesa dell'imputato, nell'atto di appello, fa notare che anche ammessa una attività in tal senso del Priebke, andrebbe comunque esclusa in capo al medesimo una potestà decisionale in ordine alla formazione delle liste in argomento, essendosi semmai trattato di «attività di mera ricerca delegata e della quale si sarebbe potuto addirittura ignorare la finalità». Quest'ultima eventualità appare incompatibile con le stesse dichiarazioni sopra riportate dell'imputato, oltre che col comune buon senso; quanto alla qualificazione del profilo collaborativo, è evidente che esso si svolse nell'ambito del ruolo che già competeva al Priebke ed è altrettanto evidente che il suo «aiuto» dovette risultare per ciò molto indispensabile per colui (il Kappler) al quale competeva il momento decisionale, non essendoci - data anche la ristrettezza del tempo a disposizione - grande spazio operativo, in linea di massima, per non accogliere le «proposte» dei principali collaboratori e comunque dovendole tenere nella massima considerazione.
Il successivo giorno 24, dopo la riunione operativa di tutti gli ufficiali, il Priebke venne incaricato della «tenuta» delle liste, nel senso che fu fatto responsabile della rispondenza delle persone da avviare a morte e poi effettivamente uccise con i nominativi risultanti da tali liste. Talmente assorbente fu per lui questo compito che egli viene sempre associato, nelle vare deposizioni, alla tenuta delle liste. Emblematica la deposizione di Domizlaff all'udienza del 9 giugno 1948, il quale, dopo aver detto che Kappler con le liste non aveva nulla a che fare, aggiunge: «Se ne interessava un certo capitano Priebke». E ancora Hass (udienza del 12 giugno 1996) alla domanda «non ha visto se c'era qualche persona addetta agli elenchi?» risponde: «Era Priebke, sì» (p. 6 della trascrizione).
Questi se ne cominciò ad interessare concretamente già prima di raggiungere le Cave Ardeatine. Dice Kappler nella dichiarazione del 4 agosto 1945: « Allo Hauptsturmführer Priebke, e forse anche a Schütz, fu comandato di controllare che tutte le persone nell'elenco fossero debitamente fatte uscire dalla prigione e condotte al luogo dell'esecuzione».
Una volta raggiunto il luogo deputato al massacro, il Priebke svolge la "delicata" mansione di chiamare singolarmente i morituri, che, scendendo dai camion, venivano avviati all'interno delle grotte e di "cancellarli" dalle liste man mano che venivano uccisi. Così dichiara all'udienza preliminare: «Il controllo era che si chiamava e si tracciava una linea sul nome» (p. 23 della trascrizione). Precisa però sia che egli svolse il compito in questione solo sino alle cinque del pomeriggio, allorquando tornò in Via Tasso, e solo fino a quando si erano effettuate al massimo 130 esecuzioni; sia che egli passò la lista e il relativo compito di controllo al Clemens.
Ma tali precisazioni, comprensibilmente fornite per cercare di attenuare la propria responsabilità, si presentano contraddette dalle dichiarazioni del Kappler. «La lista era tenuta da Priebke. Non posso dire se la lista venne tenuta sempre da lui; mi venne riferito che Priebke fece sempre questo lavoro e che si fece sostituire per poco tempo» (udienza 8 giugno 1948, p. 178 del verbale). Per Kappler è, in sostanza, Priebke il responsabile delle liste, il suo referente al riguardo; tant'è che a costui attribuisce la pretesa scoperta dei cinque ostaggi uccisi in più.
Eloquente anche la dichiarazione di Johannes Quapp, sottufficiale coimputato nel processo Kappler, all'udienza dell'11 giugno 1948: «Non posso dire se, quando giunsi, avevano già fucilato gli ultimi o la seconda metà del primo camion. Si procedette così: a me vennero dati cinque uomini; essi furono condotti in un piazzale; lì c'era Priebke con un elenco; man mano che gli uomini venivano chiamati si depennavano dalla lista» (udienza dell'11 giugno 1948). Anch'egli lega la presenza del Priebke alla tenuta della lista.
Conferma della presenza del Priebke sino al termine dell'eccidio è ricavabile dalle dichiarazioni di Kofler (12 ottobre 1945, confermate davanti al Pretore di Brunico il 27 dicembre 1947) . Questi riferisce che quando giunge alle Cave con il carico di detenuti provenienti da Regina Coeli, e quindi soltanto all'ultimo (« stava facendosi buio»), erano presenti sia Priebke che Hass.
Le dichiarazioni dello stesso Priebke (p. 30 della trascrizione dell'esame del 3 aprile 1996), da cui si ricava che egli era presente quando tornò il Kappler e quando costui affrontò e risolse il «problema» delle perplessità del Wetjen a prendere parte alle esecuzioni (su cui infra, § 3.3.4), confermano la circostanza in questione, dato che l'episodio si è svolto sicuramente nella seconda parte del pomeriggio, cioè dopo le ore 18 (cfr. p. 4 della dichiarazione di Kappler in data 4 agosto 1945).
Anche Hass associa sempre il Priebke alla tenuta delle liste. Dal suo esame del 12 giugno 1996: «Arrivò un camion inviato da Via Tasso, dalle prigioni italiane; scaricava i detenuti. Priebke aveva un elenco in mano e controllava i nomi e le persone» (p. 6 della trascrizione). E ancora: «La persona che caricava i detenuti o in Via Tasso o in altri posti dove erano, era lui a caricare le persone, forse anche con l'elenco dato da Caruso, per esempio; caricava e portava il primo trasporto fino alle Fosse Ardeatine. Lì c'era Priebke con la copia o il doppione della lista; faceva scendere la gente e cancellava quelli che erano scesi. Non so quanti trasporti ha dovuto fare» (p. 9 della trascrizione). Del resto, la versione di Hass relativamente alle cinque persone uccise in più non comprese «nell'elenco di Priebke» descrive questi come presente al momento in cui Kappler, una volta arrivato l'ultimo trasporto, diede la disposizione di uccidere anche costoro (cfr. p. 9 della trascrizione).
Non si sa se e quale parere eventualmente il Priebke espresse a proposito di tali uccisioni non programmate, di fronte alla domanda di Kappler «Cosa faccio di questi cinque che hanno visto tutto?» (esame Hass, lc. ult. cit.), a lui rivolta (esame Hass, cit. p. 19); tuttavia è certo, quanto meno, che egli percepì la disposizione impartita al riguardo dal Kappler, ed è presumibile che fosse stato proprio lui, in qualità di responsabile delle liste, a segnalare l'inconveniente e quindi sia stato proprio lui il destinatario di quella disposizione. Si legge nel verbale di interrogatorio di Hass davanti al p.m., in data 6 giugno 1996: «Kappler diede ordine a Priebke di procedere nei loro confronti all'esecuzione» (p. 3).
L'unico periodo di tempo in cui il Priebke non tenne le liste fu quindi, verosimilmente, quello in cui si cimentò in prima persona nelle uccisioni, così come convenuto nelle riunione con i «suoi uomini» che il Kappler aveva indetto alle ore 12 (sul punto si noti che Hass dichiara che la riunione si svolse il 23 sera: cfr. p. 3 della trascrizione dell'esame svoltosi all'udienza del 12 giugno 1996). Egli stesso confessa di aver personalmente ucciso due uomini, «come tutti gli ufficiali» (p. 30 della trascrizione dell'esame del 3 aprile 1996).
In conclusione, per quanto riguarda la posizione del Priebke, risulta che egli, collaboratore di fiducia e della prima ora del Kappler, «aiutò» costui in tutte le fasi dell'eccidio, preparatorie ed esecutive, anche provvedendo ad uccidere personalmente due uomini, per dare l'esempio alla truppa ed evitare che questa manifestasse incertezze e tentennamenti, pregiudizievoli del buon esito di tutta l'operazione.
Più sfumata è indubbiamente la posizione dell'Hass. Ciò dipende principalmente dal fatto che costui non era un diretto collaboratore del Kappler. Egli, giunto a Roma soltanto il 25 luglio 1943, dirigeva l'ufficio VI del Comando romano della R.S.H.A., a cui era demandato il Servizio informazioni politiche. Con Kappler aveva un rapporto pressoché paritario, perché egli dipendeva direttamente dal gen. Schellemberg, in servizio a Berlino. Nelle sue dichiarazioni del 6 giugno 1996 egli esclude una qualsiasi dipendenza dal Kappler, ma la circostanza, negata dal Kappler che invece lo annovera tra i «suoi uomini» (cfr. interrogatorio del 4 agosto 1947), non è verosimile. E' plausibile soltanto che, data la specificità del servizio informativo, l'Hass godesse di una relativa autonomia. In ogni caso egli riscuoteva una notevole stima da parte del Kappler: risulta, per esempio, che con costui ebbe il colloquio "confidenziale" delle ore 9 del 24 (riferito nel § 3.2.2) e l'ulteriore "confidenza" della mattina del 25 relativamente alla «fesseria» commessa nell'aver ordinato l'uccisione dei cinque testimoni.
I suoi compiti, dunque, nell'organigramma romano non concernevano torture, interrogatori, arresti, ma si attuavano per mezzo di rapporti informativi e contatti di vario tipo. Si trattava di attività "lato sensu" spionistiche che l'Hass continuerà a svolgere, in varie direzioni e anche per incarico dei servizi segreti italiani, per molti anni dopo la fine della guerra.
Ciò nondimeno egli partecipò alla esecuzione della strage, non solo uccidendo (almeno) due persone «come tutti gli ufficiali» e come da lui stesso, non senza reticenze e ripensamenti, confessato, ma trovandosi presente, con l'autorevolezza del suo grado e delle sue funzioni, nei momenti più significativi. Innanzitutto, alla riunione operativa con gli ufficiali, che egli sembra collocare alla sera del 23 marzo (p. 3 della trascrizione dell'esame in data 12 giugno 1996), e in cui non espresse alcuna voce di dissenso o qualche perplessità; all'inizio dell'esecuzione («Ero tra i primi», p. 4 trascrizione esame in data 12 giugno 1996). Rimase sul posto fino alla fine, o comunque vi tornò in seguito, nonostante egli lo neghi (dichiara di essere rimasto lì in tutto per 15 minuti). Infatti, che sia stato presente in occasione dell'uccisione delle cinque persone in più lo si ricava dalla precisione con cui racconta l'episodio, che non potrebbe essergli derivata esclusivamente dal successivo colloquio con il Kappler e dal fatto che la seconda uccisione diretta da parte degli ufficiali - che egli eseguì - fu sicuramente disposta dal Kappler solo dopo l'episodio del rifiuto di Wetjen (v., tra le altre, deposizione Domizlaff all'udienza del 9 giugno 1948: «Fu deciso che gli ufficiali sparassero una seconda volta»).
A conforto di tale conclusione vi è la dichiarazione Kofler del 12 ottobre 1945, già citata, il quale arrivò sul posto con l'ultimo carico di martiri, accompagnando il Tunath: lì vide, tra gli altri, Hass e Priebke.
Conclusivamente, Hass è presente alle Cave Ardeatine per un periodo ben superiore ai quindici minuti che egli ammette, non con specifici compiti operativi, quali quelli assegnati a Schütz o a Priebke, ma con il generico scopo di sovrintendere all'operazione (forse anche per riferire ai suoi capi gerarchici). Del resto, se gli ufficiali erano tutti incaricati di dare l'esempio alla truppa, è impensabile che potessero svolgere tale incombenza limitando la presenza sul campo al tempo strettamente necessario per compiere le uccisioni loro demandate; non solo la diretta partecipazione alle uccisioni, ma anche la presenza costante e vigile, stante il clima di tensione che inevitabilmente si era instaurato, doveva garantire la necessaria "pressione" sulla truppa al fine di realizzare compiutamente il macabro rituale.
3.3.1. Compito di questa Corte è ora quello di procedere alla qualificazione giuridica dei fatti come ricostruiti dai giudici del 1948, con le correzioni e integrazioni di cui si è parlato nei precedenti paragrafi. Il parametro normativo alla cui stregua valutare la condotta tenuta dagli odierni imputati nella partecipazione all'eccidio delle Cave Ardeatine è costituito - conformemente all'imputazione - dall'art. 185 c.p.m.g. L'integrazione della fattispecie ivi delineata deve essere verificata attraverso un duplice passaggio, che concerna dapprima la riconducibilità del fatto collettivo dell'eccidio all'ipotesi di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani e successivamente la specifica attribuibilità del reato così qualificato ai due odierni imputati.
La prima operazione è facilitata dal fatto che si tratta di terreno già interamente percorso dalle sentenze del 1948 e del 1952 (quest'ultima in sede di legittimità), che contengono sul punto una conclusione in senso affermativo.
Nessun dubbio che le uccisioni come sopra descritte rappresentino altrettante ipotesi di violenza consistente in omicidio consumato il cui possibile soggetto attivo è anche un militare delle forze armate nemiche, ex art. 13 c.p.m.g.
Nemmeno è da dubitarsi che la norma in questione (art. 185 c.p.m.g.) si applichi in luogo di quella che incrimina il delitto di omicidio nel codice penale comune (art. 575 c.p.), operando in materia il principio di specialità. Elementi specializzanti di tale norma sono la qualità del soggetto attivo e la circostanza che il fatto deve essere posto in essere «per cause non estranee alla guerra». Si tratta, come è noto, di due requisiti che, in generale durante un conflitto armato tra Stati, legittimano l'uso della violenza, consistendo per definizione la guerra nell'uso della violenza e essendo a ciò specificamente abilitati i militari appartenenti agli Stati in conflitto nella loro qualità di «legittimi belligeranti», in quanto tali, organi degli Stati stessi. E' altresì noto che la regola della liceità - oggi, "tollerabilità", in taluni casi - della violenza bellica tra Stati, attuata per mezzo di legittimi belligeranti, non vale se la stessa non è esercitata secondo le regole del diritto bellico e, segnatamente, se - come dice la norma in questione con terminologia ora superata - suo oggetto sono «privati nemici, che non prendono parte alle operazioni militari». Era questa una acquisizione del diritto internazionale, già all'epoca dei fatti di causa, così recepita dal legislatore italiano. E' appena da aggiungere che, ove difetti nella specie anche uno dei due indicati elementi specializzanti, si deve applicare la norma comune che incrimina l'omicidio.
3.3.2. La specialità della regolamentazione si compendia nella presenza nella fattispecie speciale di una sfera tipica di liceità descritta dall'espressione «senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo»; ricorrendo tali estremi, la regola della liceità della violenza bellica - secondo il nostro legislatore, all'epoca comprensibilmente "titubante" - torna ad espandersi.
La «necessità» cui la norma fa riferimento è la « necessità militare» o «necessità delle operazioni militari», clausola spesso presente nelle norme di diritto bellico, con funzione autorizzatoria, e che secondo le più recenti convenzioni in materia, in linea con esigenze di maggiore incisività della normazione, rileva solo se «imperiosa» o «ineluttabile».
Essendo la funzione della scriminante in parola quella di consentire in taluni casi l'uso della violenza anche nei confronti di coloro che non prendono parte alle operazioni militari, è chiaro che essa non può essere assunta in un significato ampio, quale sinonimo di «convenienza» militare, né in senso soggettivo, giacché la clausola finirebbe in tal caso per vanificare la portata e la operatività in concreto del divieto. L'eliminazione della popolazione civile dello Stato nemico da parte dell'esercito occupante sarebbe, infatti, sempre «conveniente» per le operazioni militari, indubbiamente costituendo la più diretta «soluzione» di tutti i problemi che comporta l'occupazione militare di un suolo straniero; d'altra parte, se si rimettesse la valutazione della ricorrenza della necessità ai comandanti di tale esercito, per il solo fatto che la violenza è stata in concreto esercitata «per cause non estranee alla guerra» si riscontrerebbe una logica presunzione di necessità. Non può essere evidentemente questo il significato della norma in questione, neppure se ci si riporta all'epoca in cui fu emanata.
I «casi» in cui la necessità sarebbe ammessa a legittimare la violenza contro la popolazione civile sono quelli in cui la situazione concreta è connotata dall'essere obiettivamente imposta dalla «causa di guerra». Ciò è ravvisabile solo quando il soggetto passivo del reato, pur non prendendo direttamente parte alle «operazioni militari», svolge una attività ad esse collegata e in favore di una delle parti in conflitto, ovvero viene a trovarsi in una condizione di tale legame concreto con i belligeranti - in violazione della regola della necessaria distinzione tra belligeranti e popolazione civile - da non poter non essere coinvolto nelle azioni militari.
A seguito dell'attacco di Via Rasella le truppe germaniche di stanza nella città di Roma si sono trovate di fronte all'esigenza di prendere misure di sicurezza per evitare il rischio di nuovi attacchi; ma l'adozione della disumana misura intimidativa e repressiva prescelta non è in alcun modo riconducibile alla necessità nel senso ora illustrato, non risultando provato alcun legame degli «attentatori» (possibili) con la popolazione civile romana - la quale, al più, provava comprensibile e fisiologico rancore nei confronti dell'occupante - ovvero, meno che mai, con le persone clandestinamente e barbaramente trucidate nelle Cave Ardeatine. Come esattamente ha posto in rilievo la sentenza del 1948 - richiamata su questo punto dalla sentenza impugnata - una situazione necessitata non vi è «fino a quando non si sia accertato che la popolazione agisca ben organizzata, sia bene armata e possa svolgere un'azione di particolare rilievo idonea a modificare l'andamento delle operazioni o di una qualche azione dell'esercito occupante». L'attacco di Via Rasella, il primo di tal genere, era rimasto un episodio isolato, sicché non si potevano avere elementi per ritenere che vi fosse quella condizione di resistenza organizzata e diffusa capillarmente che potesse destare pericolo e costituire il fondamento di una necessità ad esso correlata.
Si può, perciò, concludere sul punto che, a fronte dell'azione di Via Rasella - che in questa sede non si valuta sul piano giuridico, né meno che mai su quello dell'opportunità politico-militare, ma immediatamente ritenuta dall'occupante opera di non militari e per di più realizzata in territorio non costituente zona operativa (Roma era stata dichiarata «città aperta» per atto unilaterale dello Stato italiano) -, persone aventi la qualifica di militari hanno posto in essere una operazione contro parte della popolazione civile inerme del territorio occupato, non solo militarmente non necessitata, ma che neppure poteva assumere, per le specifiche modalità adottate, un qualche crisma di «militarità», fosse anche di facciata.
Tale operazione, tra l'altro veniva realizzata in assoluta segretezza, in un luogo che si voleva rimanesse ignoto, e con modalità studiate e finalizzate a non lasciar tracce degli accadimenti (si era pensato, per esempio, che il microclima molto umido delle cave avrebbe favorito la decomposizione dei corpi in tempi relativamente brevi), senza quindi che essa potesse assurgere ad un qualche monito rivolto ai partigiani e alla stessa popolazione civile, e relativo ad un futuro che, peraltro, già appariva come estremamente incerto (è noto che gli Alleati erano da tempo sbarcati ad Anzio).
E' altresì da escludere che ricorresse un altro «giustificato motivo» scriminante. Quanto alla pretesa giustificazione secondo la quale con l'eccidio sarebbe attuato una forma consentita di rappresaglia, come da disposizioni di carattere generale impartite dai tedeschi a tutte le popolazioni dei territori occupati, è sufficiente richiamare in questa sede quanto statuito dal giudice speciale di legittimità nel 1952. Il Tribunale supremo militare, pur giudicando «l'attentato di Via Rasella, alla luce delle norme di diritto internazionale, ... un atto di ostilità a danno di forze militari occupanti, commesso da persone che non hanno la qualità di legittimi belligeranti», ha escluso ogni possibile riferibilità allo Stato italiano di tale atto, proprio in quanto posto in essere da persone «che operano a proprio rischio nei riguardi del nemico» e quindi non coperte da immunità organica, negando che una relazione giuridicamente rilevante possa sussistere tra costoro e lo Stato italiano sol perché questo si giova dell'«aiuto dall'esterno all'attività di resistenza svolta nel territorio occupato», ovvero, si può aggiungere, sol perché tolleri l'esistenza di corpi volontari non osservanti le condizioni richieste per avere la qualifica di legittimi belligeranti. Non sussistendo tale estremo, la popolazione civile dello Stato italiano giammai avrebbe potuto essere legittimamente considerata soggetto passivo della ipotizzata rappresaglia.
Del resto, alle istituzioni dello Stato italiano nemmeno si sarebbe potuto rimproverare un difetto di controllo del territorio e quindi un illecito omissivo, essendo ciò esclusivamente imputabile alle istituzioni dello Stato occupante, così massicciamente presenti e alacremente operanti nella città di Roma.
La sentenza impugnata e la sentenza del 1948 hanno, poi, diffusamente dimostrato che comunque sarebbe difettato il requisito di proporzionalità delle pretesa rappresaglia. Basta aggiungere a quelle esatte considerazioni il rilievo che, anche ammesso che all'epoca non sussistesse un divieto inderogabile di sottoporre la popolazione civile alla rappresaglia bellica, il requisito in parola, comunemente accettato, avrebbe comunque dovuto correlarsi all'illecito contro il quale si intendeva reagire piuttosto che ad una eventuale finalità dissuasiva. Una proporzionalità commisurata alla finalità dissuasiva, infatti, non potrebbe fungere da limite ad una rappresaglia bellica esercitata contro la popolazione civile del territorio occupato, per la ragione che non sarebbe ipotizzabile alcun limite in tal senso; diversamente se il requisito limitativo si commisura al tipo di illecito da sanzionare, perché un confronto tra l'attacco di via Rasella e il massacro delle Cave Ardeatine rappresenta allora un caso di «rappresaglia» esemplarmente non proporzionata.
Neppure il fatto ascritto ai due imputati potrebbe ritenersi giustificato a titolo di esecuzione di pena collettiva nei confronti della popolazione. Infatti, prima ancora di far difetto il requisito previsto dall'art. 50 del Regolamento sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, approvata all'Aja nel 1907 e vigente all'epoca (quello, cioé, consistente in una «responsabilità solidale» della popolazione per fatti individuali, come esattamente dimostrato dalla sentenza del 1948), manca radicalmente nel caso concreto la possibilità di qualificare l'eccidio come «peine collective, pécuniaire ou autre». Sul punto, valgono le trancianti argomentazioni presenti nella sentenza impugnata, che, interpretando l'art. 50 citato conformemente agli orientamenti della dottrina, ha rilevato che le pene in questione avrebbero dovuto essere per lo più pecuniarie, ma, anche a volerle intendere connotate da più gravi modalità attuative, in nessun caso avrebbero potuto attingere singole persone.
Le sintetiche considerazioni che precedono confermano, dunque, che nessuna necessità di fatto o giuridica può essere invocata - sulla base del diritto internazionale ed interno vigente all'epoca, e a maggior ragione sulla base di quello vigente oggi - per qualificare come lecito l'eccidio di cui al capo di imputazione.
3.3.3. Un esame approfondito va effettuato con riguardo all'accertamento degli estremi necessari ai fini dell'imputazione soggettiva del fatto illecito sinora ricostruito ai suoi autori materiali. Su questo punto, infatti, la sentenza del 1948 ha differenziato le posizioni del Kappler da una parte e dei suoi subordinati dall'altra, sicché questo giudice - come preannunziato nel § 3.1. -, quand'anche condividesse i criteri di valutazione impiegati in quella occasione, non potrebbe accontentarsi di recepire quelle conclusioni, sia perché riferite ad altri concorrenti, sia perché, appunto, non omogenee.
La tematica è pressoché integralmente occupata dal problema del possibile rilievo giuridico da assegnare al profilo dell'esecuzione di un ordine. Su di esso si appuntano non solo le differenziate valutazioni della sentenza nei confronti di Kappler e altri, ma anche i motivi di appello formulati dai difensori di entrambi gli imputati a supporto delle richieste assolutorie sopra sintetizzate.
Al riguardo, come è noto, trova applicazione ai fatti di causa l'art. 40 c.p.m.p., non essendovi di ostacolo l'intervenuta abrogazione di tale norma da parte della l. 11 luglio 1978, n. 378. L'art. 40 fissava infatti la regola della normale irresponsabilità del militare esecutore di un ordine costituente reato, sempre che tale carattere non fosse manifesto.
Tale regola e la relativa eccezione erano in linea non solo con quanto stabilito nel codice penale militare tedesco (§ 47), ma con quanto già stabilito in generale dall'art. 51 c.p. Questa norma, attualmente applicabile anche in relazione ai reati militari, prevede, sì, l'opposta regola della normale responsabilità dell'esecutore dell'ordine illegittimo (comma 3: «Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine»), ma anche la relativa eccezione (comma 4: «Non è punibile..») per il caso in cui la legge non consenta all'esecutore «alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine». Poiché, indubbiamente, l'ipotesi descritta non poteva in primo luogo riferirsi se non al militare, costituendo il rapporto di gerarchia militare quello che maggiormente esprimeva la condizione di c.d. supremazia speciale, l'art. 40 citato, più che una disciplina speciale, conteneva in realtà uno sviluppo e una precisazione della disciplina dettata in generale, anche per quanto riguarda l'indicata eccezione alla regola dell'irresponsabilità. Anzi, è sintomatico che gran parte dei commentatori dell'art. 51 precisassero, in relazione al comma 4, che la regola della non punibilità trovava un limite ontologico nella manifesta criminosità dell'ordine, come sancito appunto nell'art. 40.
Per altro verso, l'art. 40 non venne derogato dall'art. 8 dello Statuto istitutivo del Tribunale di Norimberga, che, sancendo la non scusabilità dell'ordine, semplicemente sottraeva al giudice il compito di verificare la sua concreta manifesta illiceità e la presumeva come assolutamente sussistente nei casi in cui l'illecito ordinato ed eseguito fosse un crimine di guerra o comunque sottoposto al giudizio del Tribunale. Tale regola di giudizio si fondava evidentemente sulla essenza stessa dei crimini di guerra, i quali, ponendosi a tutela di valori fondamentali di carattere assoluto riconducibili all'intera umanità, e quindi prescindenti da qualsivoglia particolaristica angolazione, presentano come caratteristica ontologica una immediata evidenza e un elevatissimo contenuto di disvalore.
Per quanto concerne, comunque, la regola della normale scusabilità dell'esecuzione di un ordine vincolante, essa prendeva in considerazione le situazioni in cui l'ordine impartito al militare, o comunque alla persona soggetta ad altrui potestà o soggezione, comportava per costui la primaria necessità giuridica di dover eseguire quanto richiesto anche se si fosse trattato di alcunché di illecito. Ora, sul presupposto che in queste situazioni non sembrava potersi "esigere" dal militare un comportamento diverso da quello tenuto, l'ordinamento consentiva che il fatto illecito materialmente realizzato o agevolato non venisse imputato al soggetto a titolo di dolo.
Questa essendo la disciplina dell'esecuzione dell'ordine come causa di esclusione del dolo, applicabile all'epoca dei fatti, occorre verificare la ricorrenza, nella specie, di quella situazione di inesigibilità di un comportamento diverso da parte degli esecutori capace di condurre alla conclusione della mancata integrazione della fattispecie soggettiva. Essa suppone che sul subordinato gravi un conflitto di doveri dall'esito soggettivamente scontato, data l'impossibilità giuridica di agire diversamente, che il subordinato è costretto a subire, proprio in quanto soggetto chiamato "soltanto" e semplicemente ad eseguire l'ordine: la sua condotta apparirà allora non riprovevole, e quindi non meritevole di pena, perché la forte pressione psicologica nella quale egli agisce - al medesimo non rimproverabile - non autorizza a ritenere che la sua volontà si sia formata seguendo un normale processo motivazionale.
Questo riconoscimento, tuttavia, suppone che l'esecutore si sia previamente rappresentato il confliggente dovere di agire diversamente ed abbia ritenuto di non dovervi ottemperare per la preponderante cogenza del dovere di eseguire l'ordine: l'incombenza dell'ordine lo costringe a tenere un comportamento presumibilmente contrario a quello che egli avrebbe tenuto se fosse stato libero di scegliere se agire o non agire in quel determinato modo.
Conferma di ciò si ricava dallo stesso tenore dell'art. 51 c.p., nel cui alveo, come accennato, si sviluppa la disciplina dell'art. 40. Infatti, la situazione descritta nel comma 4, relativa a colui che legalmente non ha alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine, suppone l'inapplicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui al precedente comma 3, relativa a colui che per errore abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo; suppone, cioè, nell'esecutore l'avvenuta percezione del carattere illegittimo dell'ordine, o, perlomeno di una tale. Del resto, l'esclusione legale del potere del «sindacato» non significava annullamento della possibilità di fatto di formulare ogni valutazione sulla legittimità o illiceità dell'ordine e quindi alla cancellazione della sua rilevanza; significava più esattamente esclusione della possibilità giuridica di disobbedire a fronte di un ordine illegittimo o illecito, o anche soltanto di discutere sulla sua esecutività.
La norma dell'art. 51, comma 4, come sviluppata dall'art. 40 c.p.m.p. mirava, del resto, a salvaguardare sopra ogni altra l'esigenza dell'obbedienza agli ordini militari, conferendo all'inferiore la più ampia garanzia di impunità in parallelo con l'esclusione del suo potere-dovere di disobbedire.
Il previsto limite della manifesta criminosità dell'ordine verificandosi il quale l'inferiore aveva, invece, il dovere di disobbedire, non si fondava tanto - come talvolta si crede - sulla «riconoscibilità» esterna della illegittimità anche per chi sarebbe legalmente "cieco", come il militare. Se fosse stato così, infatti, si sarebbe ammessa un responsabilità più colposa che dolosa, ravvisandosene il fondamento, evidentemente, sul fatto che l'esecutore non avrebbe prestato attenzione alla criminosità dell'ordine, pur essendo essa manifesta e quindi percepibile all'uomo medio. Senonché, anche in questo caso avrebbe operato, in assenza di espressa deroga, il terzo comma dell'art. 51 c.p., che rende rilevante l'errore, e salva eventualmente la punibilità per colpa, sempre che si fosse potuto richiamare in materia il disposto dell'art. 59, comma 4, ultima parte, c.p.
La punibilità dell'esecutore che abbia agito nonostante la manifesta criminosità dell'ordine stava ad indicare che la pretesa all'obbedienza non poteva spingersi oltre un certo limite, quello dell'incoercibilità dei doveri della coscienza. Stante la manifesta «criminosità» e quindi l'altissimo livello di «illegittimità» dell'ordine, non potendosi più imporre l'obbedienza comunque a causa dell'intollerabile grado di compressione richiesto dei doveri della coscienza, la legge imponeva la disobbedienza comunque, eliminando in radice la configurazione di un conflitto di doveri in capo al subordinato e rendendo così perfettamente esigibile il comportamento astensivo.
La mancata astensione, in una situazione di assenza di conflitto, eclissava la problematica dell'esecuzione dell'ordine, giacché l'esecutore consapevole, il quale, dovendo disobbedire, invece si attivava, agiva al di fuori della rilevanza giuridica obiettiva dell'ordine, così divenendo pienamente corresponsabile al pari del superiore.
Non si trattava, dunque e a ben vedere, di una regola di imputazione soggettiva del reato, ma di una norma che tracciava il limite obiettivo della vincolatività dell'ordine. In tal senso, vigeva una disciplina non dissimile da quella odierna, secondo la quale, esplicitamente, «il militare al quale viene impartito un ordine ... la cui esecuzione costituisca comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l'ordine» (art. 4, comma 4, l. 11 luglio 1978, n. 382).
Riassumendo: l'esecuzione dell'ordine vincolante illegittimo comportava la non punibilità a titolo di dolo dell'inferiore che non si fosse comunque rappresentato tale illegittimità, ovvero che, essendosela rappresentata, avesse risolto il conflitto di doveri nel senso della esecuzione e sempre che tale conflitto non fosse venuto meno dato il carattere di manifesta criminosità dell'ordine. Come si vede, dunque, la coscienza della criminosità dell'ordine lasciava spazio alla non punibilità, a condizione che si fosse instaurato quel conflitto di doveri in capo all'esecutore, di cui si è detto.
3.3.4. Ritiene il Collegio che se si legano tali premesse normative alle ricostruite risultanze fattuali si deve concludere che non ricorre in capo ai due odierni imputati alcuno degli elementi che possono portare alla non punibilità. Essi, infatti, si sono travati ad agire in completa adesione all'ordine ricevuto e senza subire alcuna coartazione della volontà, essendosi riscontrato nei fatti come vi sia stato un pieno accordo tra chi dapprima impartì l'ordine (Hitler, Kesselring,?) e chi poi lo fece proprio (Kappler) imprimendogli in via esecutiva, col tramite dei subordinati (tra cui Hass e Priebke), la cadenza dell'immediatezza e ineguagliabili caratteri di efferatezza e disumanità.
Si è visto sopra (§ 3.2.2.) come tale "ordine" prese via via corpo e si consolidò per l'inusitato zelo di chi era chiamato ad eseguirlo, ma il quadro probatorio a disposizione impone di ritenere che analoga ansia da parte di subordinati di andare oltre persino quanto richiesto dal superiore caratterizzò, purtroppo, anche tutte le fasi attuative. In questa tragica corsa alla realizzazione di una efficiente ferocia gli imputati Hass e Priebke svolsero, così come programmato, gli specifici compiti operativi loro demandati con la massima disponibilità e prontezza, senza che mai il dubbio o gli imperativi della coscienza minassero l'una o l'altra. Essi, più che ritenere l'ordine «giusto» e conveniente, subito si prodigarono, in accordo tra loro e con tutti i superiori, per realizzarlo con quelle modalità. Nessun conflitto tra ordine e coscienza è emerso; l'ordine qui non incombe sull'inferiore facendo soccombere gli imperativi della coscienza. Esso costituisce il semplice presupposto per agire, l'ombrello sotto il quale nascondere il piano criminoso e cercare di giustificare l'illecito.
In questo quadro, non è pensabile che la questione relativa alla integrazione della fattispecie soggettiva del reato contestato - paradigmaticamente consistente in un crimine di guerra - possa essere in qualche modo condizionata dall'immanenza di un ordine in capo agli incaricati della esecuzione. Il comportamento degli esecutori e la loro totale adesione psicologica a quanto veniva richiesto - per ideologia o «abito mentale», ovvero per calcolo di convenienza - esclude senz'altro un loro atteggiamento di militari «vinti» da tale irresistibile richiesta.
Neppure è possibile aderire ad un ragionamento che viene affacciato nella sentenza del 1948 e ripreso nelle prospettazioni della difesa nel presente processo. Si legge in quella decisione, a supporto della conclusione secondo la quale per i subordinati del Kappler si escludeva «che essi avessero coscienza e volontà di eseguire un ordine illegittimo», che tra l'altro «gli imputati appartenevano ad un'organizzazione rigidissima, dove assai facilmente si acquistava un abito mentale portato alla obbedienza pronta». Simile rilievo, più che portare, come vorrebbe il Tribunale militare territoriale di Roma, ad escludere la rappresentazione della criminosità dell'ordine, va preso in considerazione quando si deve valutare la possibilità dell'instaurazione del conflitto di doveri, nei termini sopra indicati; se ne potrebbe ricavare, infatti, l'idea che il descritto abito mentale, la disciplina rigidissima, nonché - si può aggiungere - la vigenza di istruzioni, circolari o regolamenti dettanti regole feroci circa la condotta della guerra, in aperto spregio del diritto internazionale vigente e dei più elementari principi di umanità, avessero indotto negli imputati una spiccata insensibilità ai valori fondamentali che li rendeva pregiudizialmente impermeabili all'esigenza di mettere in discussione qualsivoglia ordine. Simile condizione avrebbe determinato una sorta di "incapacità" giuridico-penale, tale da sottrarre le loro condotte alle normali regole di valutazione.
Le implicazioni di questo ragionamento sono evidentemente confliggenti con le stesse ragioni di esistenza del diritto penale e più in generale con la dimensione della giuridicità, la quale suppone dei criteri valutativi capaci di imporsi a tutti gli esseri umani aventi certe caratteristiche e con personalità non minata da particolari patologie. Se, infatti, un gruppo di individui per motivi e secondo modalità che la storia ha solo in parte chiarito, decide di modificare i parametri di riferimento della giuridicità come conseguenza dell'avvenuto cambiamento degli imperativi della morale e dei canoni della convivenza degli uomini, compito del diritto è quello di opporsi a tali operazioni, pena la sua stessa negazione, cioè la sconfitta dei valori per la tutela dei quali vive e viene applicato.
Se quindi, per effetto dello stravolgimento delle coscienze che implicò il nazismo, si determinò la non configurabilità di quel conflitto di doveri a cui le norme ricollegano la non punibilità dell'esecutore, il giudice deve solo prendere atto della non ricorrenza del presupposto della non punibilità, piuttosto che affermare una regola di giudizio che implica una modificazione degli stessi presupposti normativi. Il diritto penale è qui chiamato ad una "prova di resistenza", dal cui esito dipende la verifica di quella capacità di "indirizzo" comportamentale che gli viene demandata.
E' verosimile che oggi si possa esprimere questo ordine di considerazioni solo grazie alla distanza temporale che separa il presente processo dagli eventi, e che quindi quella che viene stigmatizzata come una anomalia generatrice di ingiustizie, rappresenti invece l'occasione per una riflessione più matura sulle implicazioni giuridiche degli eventi stessi. I giudici del 1948, invero, ebbero la possibilità di ricostruire i fatti con ben maggiore immediatezza, anche se si è visto come quelle narrazioni fossero in alcuni punti lacunose; tuttavia, quanto alla valutazione giuridica, essa potrebbe essere risultata eccessivamente tributaria della temperie culturale di un'epoca che aveva appena chiuso i conti con l'ideologia del nazismo e che per batterla e superarla aveva dovuto in qualche modo "legittimarla" come avversaria.
3.3.5. Escluso, comunque, che sulla posizione degli imputati possa aver inciso, nel senso di escludere il dolo, la dimensione della "vincolatività" dell'ordine ricevuto, va esaminato l'altro aspetto relativo alla possibile "putatività" di una causa di liceità. A questa conclusione giunsero, come accennato, i giudici del 1948 con riferimento ai subordinati del Kappler, sulla base della considerazione «che gli imputati erano ignari della esatta situazione che portava alla fucilazione delle Cave Ardeatine mentre erano a conoscenza che ordini aventi lo stesso contenuto di quello ad essi impartito dal Kappler spesso erano stati eseguiti in zone d'operazioni».
Anche sotto questo profilo occorre, però, giungere a conclusioni diverse per quanto concerne i due odierni imputati. Priebke, braccio destro di Kappler, conosceva perfettamente la situazione relativa alla esecuzione della c.d. rappresaglia, perché sin da quando Kappler fece rientro nel suo ufficio in Via Tasso fu chiamato a collaborare nella predisposizione delle liste. In tale posizione egli si rese conto delle modalità attraverso le quali furono compilate, essendosi rappresentato dapprima il vano tentativo di inserirvi solo condannanti a morte e poi la progressiva caduta di ogni criterio paralegale, sino all'inserimento degli ebrei, come «male minore»(!). Lo stesso Hass, in qualità di capo reparto, interessato dal Kappler sin dalla mattina del 24 alla vicenda delle c.d. rappresaglia ebbe modo di conoscere tutti gli elementi che rendevano chiara l'inoperatività di qualsivoglia causa di giustificazione, a cominciare dalla modalità di formazione delle liste. Invero, la progressiva rinuncia ad una parvenza di copertura legale, stante l'insufficienza del numero di condannati a disposizione, non poteva che fungere, per entrambi gli imputati, da indicatore dell'abbandono via via semrpe più evidente di ogni possibile giustificazione "legale" al crimine che si accingevano a commettere, sì che il dolo, seppure eventualmente non presente sin dall'inizio sotto questo profilo, è sicuramente sopravvenuto almeno al momento della definitiva formazione dei criteri di scelta dei fucilandi. Ambedue gli imputati erano poi venuti a conoscenza dei rifiuti opposti da Dobrick e da Hauser e delle perplessità manifestate dai comandanti militari nell'effettuazione della strage. Hass fu addirittura invitato a non immischiarsi dal suo referente berlinese. Del pari incontrovertibile è, poi, la piena rappresentazione dell'illiceità della condotta nella uccisione dei cinque testimoni dell'eccidio non compresi nelle liste, di cui si resero perfettamente conto non solo Priebke, che la fece eseguire, ma anche Hass, che assistette alla scena.
Altro elemento rivelatore della illiceità dell'eccidio dovette essere per entrambi gli imputati l'assoluta segretezza con cui esso avvenne e in cui fu mantenuto, apertamente contrastante con la funzione della rappresaglia.
Infine, la stessa inumanità delle concrete modalità di attuazione della strage, tali da imporre agli aguzzini la necessità di stordirsi coll'ubriacarsi, per continuare nel massacro e comunque per provare a dimenticare quello che avevano fatto (dichiarazione Ammon in data 13 ottobre 1945, confermata innanzi al Pretore di Brunico in data 27 dicembre 1947; dichiarazione Kofler, citata), fu eloquente indice rivelatore della barbarie compiuta. Su di essa gli imputati hanno avuto persino ampia possibilità di riflettere nel lungo tempo (circa un'ora e mezzo: cfr. deposizione Johannes Quapp all'udienza dell'11 giugno 1948, f. 286 del verbale, il quale parla di una «grande interruzione») in cui dovettero attendere l'arrivo del camion che, ormai al buio, trasportava i detenuti a disposizione dell'autorità italiana. Del resto, non mancò la diffusione del disgusto e del malcontento presso la truppa (v. interrogatorio Borante Domizlaff all'udienza dell'8 giugno 1948, f. 228 del verbale), se Kappler stesso parla di una «grande depressione spirituale» (udienza 8 giugno 1948, f. 181 del verbale). Tali sentimenti, se non direttamente provati dai due imputati, furono certamente avvertiti e dovettero imporre la piena consapevolezza dell'enormità della strage, durante il notevole lasso di tempo in cui essa ebbe luogo.
In forza di quanto precede, si può dunque concludere che come nessun ordine influì in misura giuridicamente rilevante sulla condotta degli imputati, così non sono emersi segnali di una sia pur colposa carente rappresentazione dei paradigmatici elementi di illiceità di tale condotta da parte degli imputati stessi.
Tali conclusioni indubbiamente divergono da quelle a cui sono giunti i giudici del 1948, relativamente alle posizioni degli imputati in quel processo, ma tale diversità è riconducibile, da un lato, ad un approfondimento degli accertamenti fattuali, dall'altro, all'adozione di criteri valutativi inerenti la sussistenza del dolo che a questa Corte sono sembrati più rispondenti allo schema normativo. L'approfondimento fattuale ha consentito innanzitutto una precisa messa a fuoco della condotta tenuta dagli odierni imputati, che è apparsa caratterizzata da evidenti connotati di specificità, nell'ambito dell'attività concorsuale delittuosa con il Kappler, che impongono comunque un autonomo apprezzamento giudiziale. Del resto, lo stesso approfondimento, ha imposto, come si è visto, precisazioni in relazione al ruolo svolto dallo stesso Kappler nella vicenda, sia quanto alla dinamica della formazione dell'ordine e alla individuazione dei termini del suo contenuto, sia quanto alla vicenda della morte delle cinque persone non comprese nelle liste.
C'è da riflettere, sulla scorta delle sollecitazioni della difesa e in linea con quanto preannunziato nel § 3.1., se una simile operazione di «rilettura» sia consentita a questo giudice, in particolare se le conclusioni suddette siano compatibili con gli accertamenti fattuali ricavabili dalla sentenza del 1948, divenuti intangibili e quindi destinati a costituire pietra di paragone per un eventuale giudizio di revisione della presente sentenza. Evidenti ragioni di economia processuale e di giustizia sostanziale si ritiene, infatti, impedirebbero a questo giudice di adottare soluzioni suscettibili di integrare i presupposti di un «conflitto teorico di giudicati», rilevante ex art. 630, lett. a) c.p.p.
Il potenziale punto di emersione di tale conflitto è rannodato attorno a quanto stabilito dal giudice del 1948 sulla posizione del Kappler. Nel dispositivo della sentenza in questione si legge che il Kappler viene dichiarato responsabile del reato di omicidio continuato che gli veniva contestato, quindi dell'omicidio di tutti i 335 martiri delle Cave Ardeatine; se, infatti, egli fosse stato assolto, così come si ricava dalla motivazione, per l'omicidio di 320 delle 335 persone uccise, ciò si sarebbe dovuto specificare nel dispositivo, ove pure, relativamente ad un secondo capo di imputazione, fu apportata una «modificazione della rubrica». In assenza di corrispondente modificazione o di espressa declaratoria di assoluzione quanto al capo di imputazione relativo alla strage delle Cave Ardeatine può, quindi, sorgere il dubbio che sulle conclusioni presenti nella motivazione della sentenza, secondo le quali «non può affermarsi con sicurezza che il Kappler abbia avuto coscienza e volontà di obbedire ad un ordine illegittimo» si sia formato un giudicato con effetto di accertamento. Il contrasto evidente tra dispositivo e motivazione venne già rilevato dal Tribunale supremo militare con la sentenza del 1952, ma non dette luogo ad annullamento, giacché, pronunciandosi il giudice di legittimità esclusivamente su ricorso dell'imputato, fu scorta corrispondenza tra l'una e l'altra parte della sentenza «perché il dispositivo adottato è sorretto da idonea motivazione, cioè da quella parte della motivazione che concerne la dimostrazione della responsabilità per omicidio continuato» delle 15 persone in eccedenza, rilevandosi altresì che «la parte della motivazione che riguarda il dubbio ... non ha riflesso alcuno sul dispositivo di condanna». Tali conclusioni possono far pensare che l'effetto di accertamento si sia verificato solo con riferimento alla parte della motivazione contenente la condanna, e che, con riguardo all'altra parte, essa si sia "volatilizzata" all'interno del più ampio dispositivo di condanna.
Ma, a parte questi rilievi formali, la sentenza del 1948 non si condivide non tanto per la ricostruzione in fatto - pure carente e integrata come sopra anche grazie alla sopravvenienza di nuove prove - quanto per l'illogica valutazione di quelle emergenze. Infatti, lo stesso ragionamento posto da quel giudice a base del dubbio sul dolo avrebbe dovuto essere coerentemente esteso alla ritenuta tassatività dell'ordine ricevuto dal Mältzer, ben potendosi prospettare l'idea che il Kappler - secondo quella logica - si reputasse non solo facultizzato ma addirittura obbligato ad ampliare di dieci unità il numero dei giustiziandi; se si dubita che il Kappler avesse piena coscienza dell'illegittimità dell'ordine ricevuto, come si fa a non dubitare, a più forte ragione, che egli non pensasse legittimamente di poter applicare la proporzione matematica di uno a dieci in relazione alle mutate premesse di fatto? In tal modo sarebbe caduta anche la possibilità di imputare la morte delle restanti cinque vittime sulla base dell'art. 82 c.p., che suppone l'illecito doloso di base, sicché l'assoluzione per insufficienza di prove avrebbe dovuto coerentemente involgere l'intero capo di imputazione.
Tale illogicità rivela, invero, la fallacità intrinseca del ragionamento. Per giungere alla conclusione dubitativa in questione la sentenza del 1948 utilizza gli stessi parametri sopra indicati che hanno portato all'assoluzione piena dei subordinati del Kappler, in più aggiungendo che «il modo crudele dell'esecuzione .. costituisce un elemento obiettivo di prova circa la coscienza dell'illegittimità dell'ordine ... ma non è da escludere che quelle modalità siano collegate, più che ad una volontà cosciente circa l'illegittimità dell'ordine, ad uno stato d'animo di solidarietà verso i tedeschi morti». A parte il rilievo che le stesse considerazioni potevano svilupparsi in relazione alla posizione dei subordinati, che invece sono stati assolti - immotivatamente, dunque - con formula piena, così sedimentando illogicità a illogicità, è agevole rilevare che un Kappler, pur se improbabilmente accecato d'odio, sarebbe stato allo stesso modo in grado di apprezzare i segnali della chiara illegittimità del suo agire che la realtà prepotentemente ma inutilmente gli inviava, non fosse altro perché era stato testimone diretto delle perplessità del Mackensen e del Kesselring, nonché dei rifiuti di Dobrick ed Hauser.
A fronte di questi gravi rilievi critici che possono essere formulati alla sentenza del 1948, ritiene il Collegio che né sul piano formale né su quello sostanziale possa comunque emergere da essa una preclusione alla precisazione delle emergenze fattuali e alla adozione di differenti regole di giudizio nel presente procedimento a carico di concorrenti nello stesso reato, così come sinora concretate.
3.3.6. Per completare l'indagine sul dolo degli odierni imputati, si può affermare che come non sussisteva la necessità giuridica di agire in adempimento dell'ordine, nemmeno si può ravvisare l'esistenza di uno stato di necessità di fatto, rilevante ai sensi dell'art. 54 c.p. ai fini della esclusione della responsabilità. Sul punto la sentenza impugnata dà conto rettamente delle risultanze probatorie, e la conclusione è coerente con quanto emerge circa la assoluta mancanza di momenti coercitivi nella preparazione ed esecuzione della strage, riguardanti gli ufficiali che formavano lo staff direttivo alle dipendenze del Kappler. Egli così descrive il suo sodalizio: «Tra me ed i miei compagni non esisteva alcuna distanza. Con loro dividevo gioie e dolori»; così descrive la riunione organizzativa: «Tutti i comandanti disponibili erano intorno a me. Raccontai loro che dovevamo fare l'esecuzione, feci comprendere l'importanza del fatto e che avremmo dovuto uccidere 320 persone....In quel rapporto dissi che mi rivolgevo a loro come amico. ...Tutti erano d'accordo con me che per il mantenimento della disciplina, tutti i comandanti dei nuclei dovevamo partecipare con almeno un colpo alla esecuzione...Se qualcuno si fosse rifiutato l'avrei ascoltato e avrei discusso» (deposizione ud. 7 giugno 1948, f. 164 s. del verbale).
Così, in effetti, fece quando se ne presentò l'occasione. E' ancora Kappler che parla: «Seppi quando andai per la seconda volta che qualcuno si era rifiutato di fare l'esecuzione. Questi era Wetjen. Seppi pure che i plotoni erano in istato di agitazione ed erano corse delle parole come queste: "Lui impartisce gli ordini e non li esegue". Nell'interesse di Wetjen e della disciplina, parlai con lui, non lo rimproverai, non gli comandai nulla. Gli feci solo presente quale effetto avrebbe avuto la sua condotta, nei riguardi dei suoi uomini. Lui mi espose il suo stato d'animo e gli chiesi se era in grado di eseguire gli ordini se fossi rimasto al suo fianco. Mi rispose di sì ed allora superai me stesso e mi posi ancora nel plotone d'esecuzione» (deposizione all'udienza dell'8 giugno 1948, f. 180 del verbale).
Non occorrono altre dimostrazioni, ad avviso del Collegio, data anche l'importanza del narratore. Il Kappler si fidava ciecamente dei suoi "uomini", tant'è che lasciò le Cave per un lungo periodo di tempo; e si trattò di fiducia ben riposta, se è vero che, a parte l'episodio del Wetjen, nessuno - e meno che mai l'Hass o il Priebke - approfittò dell'assenza di colui «che aveva impartito l'ordine» per tentare di salvare qualche innocente o di alleviarne la sofferenza.
Vero è che l'organizzazione e l'esecuzione della strage non sono passate né potevano passare attraverso alcun momento autoritativo all'interno dello "staff" dirigenziale capitanato dal Kappler e di cui facevano parte i due attuali imputati. Il pieno accordo dei partecipi era la condizione assolutamente indispensabile per il buon esito dell'operazione, perché a fronte del suo carattere impareggiabile di criminosità manifesta, qualsiasi obiezione, seppur velata, qualsiasi esitazione o incertezza avrebbe comportato il rischio del fallimento. Un simile livello di adesione psicologica e di convinta partecipazione, che non si può in nessun caso ottenere con la minaccia della punizione e con la conseguente costrizione eteroindotta, solo le SS potevano fornirla: qui non era la disciplina militare a imporsi, ma la coscienza di essere partecipi di un organismo criminoso spietato che non si voleva fermare di fronte a nessun ostacolo, né giuridico né morale.
Come, a ben vedere, si registrò una sostanziale autoassunzione dell'incarico da parte del Kappler, a fronte dell'equivoca veicolazione di un ordine nei suoi confronti, corrispondente autoassunzione dei compiti direttivi è data riscontrare da parte dei "suoi" uomini, la cui completa ed incondizionata disponibilità costituì il volano operativo indispensabile per portare a termine senza "inconvenienti" il feroce disegno criminoso.
Sintomatico il comportamento del Tunath: egli, a fronte dello stallo che stava registrando nel Carcere di Regina Coeli quanto al reperimento dei cinquanta martiri designati dalla polizia italiana, lungi dal «riferire» ai superiori, con zelo incomparabile minacciò di caricare sul camion della morte gli stessi secondini in servizio al Carcere (dichiarazione Alianello all'udienza del 22 giugno 1948 del Tribunale militare territoriale di Roma, f. 523 del verbale).
In questo quadro, non ha senso parlare di esecuzione di ordini vincolanti, come non ha alcun peso l'interrogativo circa la forza motivante delle conseguenze pratiche ed immediate in caso di rifiuto di obbedienza. Nessuna minaccia - soprattutto tale da porre immediatamente in pericolo la vita o l'integrità fisica della persona - fu fatta dal Kappler o dai suoi diretti collaboratori al gruppo direttivo di ufficiali delle SS romane, così come dimostrato compiutamente nella sentenza impugnata, perché nessuna minaccia occorreva fare, né sarebbe stata pensabile.
In particolare, è chiaro che le minacce profferite dallo Schütz nei confronti di eventuali riottosi erano sicuramente rivolte ai sottufficiali e alla truppa per la semplice ragione che gli ufficiali si erano già manifestati «tutti d'accordo» con il Kappler nel corso della riunione operativa e che essi dovevano sparare per dare l'esempio. Dalla fucilazione di un ufficiale riottoso - magari così "carismatico" ed importante come Hass e Priebke - sarebbe venuto, più che un esempio, un incitamento alla rivolta; come dimostra il caso Wetjen un rifiuto così significativo richiedeva più il guanto di velluto di Kappler che non il bastone di Schütz.
3.3.7. Gli imputati Hass e Priebke, nell'ambito dell'accordo criminoso sopra ricostruito, ricoprirono - come visto - un diverso ruolo nelle varie fasi della strage, accomunati però dall'aver entrambi sicuramente cagionato di mano propria l'uccisione di due delle 335 persone che furono messe a morte nelle Cave Ardeatine. Tuttavia ambedue sono da ritenere allo stesso modo responsabili delle morti non direttamente cagionate, esattamente attribuite loro a titolo di concorso.
Per il Priebke valgono le considerazioni contenute nella sentenza impugnata. Evidente il suo contributo causale alla realizzazione di tutte le uccisioni, fornito dapprima nella fase della preparazione dell'eccidio per quanto concerne la predisposizione delle liste e la diligente opera collaborativa di seguito posta a tutto servizio dell'orrendo disegno perpetrato dall'«amico» Kappler e dai suoi superiori. Egli si segnala come uno dei pilastri su cui la banda di criminali ha potuto contare sul piano operativo. Controlla il carico dei detenuti da Via Tasso, in qualità di responsabile delle carceri; fa il contabile della strage; ne coordina la dinamica in qualità di tenutario delle liste; riceve e verosimilmente fa eseguire l'ordine della uccisione delle cinque persone in più rispetto al numero prestabilito. Non si tratta di concorso morale, ma di effettivo spiegamento di energie verso la realizzazione del piano comune predisposto da tutti i concorrenti, supportato costantemente dal dolo, cioè dalla piena rappresentazione e volizione di tutti gli accadimenti e di tutte le uccisioni, rispetto alle quali egli ha avuto un ininterrotto dominio finalistico.
Né si tratta di mera coscienza e volontà della condotta non sostenuta da quegli elementi di «conoscenza» del significato della strage nella logica della guerra e della occupazione. In qualità di "braccio destro" del Kappler egli era perfettamente a conoscenza della portata della «rappresaglia», di tutte le sue modalità esecutive, in particolare dei criteri di selezione dei morituri. Egli ha senz'altro avuto la possibilità di percepire in pieno l'incommensurabile disvalore che connotava l'eccidio, di riflettere sull'abnorme criminosità di quanto era stato richiesto loro e di quanto andavano eseguendo, ma ciò non gli ha impedito di agire con quella freddezza, lucidità e convinzione che, ancora, a distanza di cinquanta anni, traboccano dal racconto degli accadimenti che egli propone.
Né minore coinvolgimento è dato riscontrare nella posizione dell'Hass. Egli non per un caso si trovava alle Cave Ardeatine, ma per svolgervi quel ruolo a cui era stato chiamato nel corso della riunione del Kappler con i suoi accoliti, e su cui non risulta aver avuto alcunché da obiettare. Hass poteva dialogare con il Kappler, dare consigli, esprimere eventuali perplessità, ergersi ad ascoltato interlocutore. Ma ciò, evidentemente, sarebbe stato percepito da costui come un intralcio alla marcia della «ruota che girava» e che Kappler stesso aveva messo in moto; sicché, lungi dal seguire quantomeno i consigli del suo superiore berlinese, che lo aveva scongiurato di «non immischiarsi» in quella faccenda, Hass "cavalca la tigre" e, se non per pura convinzione, quanto meno per freddo calcolo opportunistico, recita efficacemente la parte riservatagli.
Né è a dire, come profilato nei motivi di appello che lo concernono, che egli «ignora(..va) completamente la portata dell'ordine e soprattutto la composizione delle liste». Tale rilievo è smentito dalla ricostruzione in fatto sopra operata (v. § 3.2.4), segnatamente dal suo ruolo di confidente del Kappler e di attento osservatore-informatore della realtà romana. Egli percepisce in pieno il disvalore del crimine che si stava commettendo e, seppure non vi reciti una parte di primo attore, pone in essere, oltre alla diretta uccisione di almeno due persone, un comportamento che va ben al di là del contributo causale minimale alla realizzazione di tutte le restanti uccisioni. La sua presenza sul luogo - e prima ancora la sua presenza alla riunione degli accoliti - non rappresenta una mera spinta rafforzatrice nei confronti degli incerti, eventualmente integrante i discutibili profili del c.d. concorso morale, così come opina il giudice di primo grado; si tratta di una presenza importante, incombente e significativa, ai fini dell'esigenza di esemplarità che il «delicato» caso richiedeva, coerentemente a quanto programmato a tavolino. Le stesse dirette uccisioni da lui operate si pongono come fatto esemplare nei confronti della truppa e quindi forniscono, nell'ambito del piano criminoso concordato, un contributo determinante a tutte le altre uccisioni.
Si consideri al riguardo, peraltro, che la necessità dell'esempio, individuata "a tavolino" nelle riunione preparatoria, venne concretamente verificata nel corso dell'esecuzione dei crimini, a tal punto che il "secondo giro" di uccisioni per mano degli ufficiali presenti, tra cui gli imputati, fu concordato, nel concreto svolgersi degli accadimenti, dopo aver constatato il malumore della truppa e l'atteggiamento recalcitrante del Wetjen.
Con ciò, non si intende affermare che il contributo in tal modo fornito dall'Hass si pone come "conditio sine qua" non di tutti i restanti omicidi; è tuttavia noto che la causalità materiale nel concorso di persone non può essere ricostruita - a parere concorde di giurisprudenza e dottrina - in termini rigidamente condizionalistici, come per il reato a esecuzione monosoggettiva, dovendosi ritenere penalmente rilevante anche il contributo di agevolazione (per tutte, con particolare chiarezza: Cass. Sez. VI, 26 maggio 1988, D'Andria, in Giust. pen., 1989, II, 294; Sez. I, 18 aprile 1988, Maricca, in Cass. pen., 1990, 841) o comunque il contributo caratterizzato "ex ante" da sicura idoneità a favorire l'evento o a renderlo più probabile (per tutte: Cass. Sez. V, 9 maggio 1986, Giorgini, in Giust. pen., 1987, III, 217; Sez.I, 11 marzo 1991, Cantone, in Cass. pen., 1993, 44).
Nel caso in esame la complessiva condotta tenuta dall'Hass si presenta come sensibilmente più importante di un contributo solo potenziale, trattandosi di un contributo materiale di agevolazione che ha concretamente facilitato la commissione dell'eccidio. Egli va pertanto giudicato, al pari del Priebke, penalmente responsabile di tutti gli omicidi ascrittigli a titolo di concorso - non solo di quelli cagionati di mano propria -, sussistendone i prescritti requisiti.
Ambedue sono responsabili per la uccisione delle cinque persone in più non rientranti nell'accordo criminoso, perché, seppure non programmate, quelle morti rientravano nella logica dell'azione rapida e clandestina, destinata a rimanere tale. Le specifiche attività concorsuali dei due imputati dispiegano la loro efficacia anche su quelle morti in modo non dissimile rispetto a quelle programmate; la ricostruzione dei fatti ha del resto mostrato che di esse i due imputati sono stati concretamente e pienamente consapevoli.
3.3.8. La sentenza impugnata dichiara sussistente nei confronti del solo Priebke la contestata aggravante della premeditazione, ex art. 577, n. 3, c.p.; nei confronti dell'Hass giunge, invece, ad estenderla ai sensi dell'art. 118 c.p., nel testo previgente rispetto alla novella del 1990, in quanto circostanza soggettiva che è servita ad agevolare la commissione del reato da parte dell'imputato. Al riguardo, l'appello in favore dell'Hass contesta l'operatività in materia del vecchio testo dell'art. 118, attraverso l'art. 23 c.p.m.g.; mentre l'appello redatto nell'interesse del Priebke chiede che venga dichiarata l'insussistenza dell'aggravante in questione, siccome applicabile solo nei confronti dei concorrenti che hanno dimostrato una maggiore pervicacia del proposito criminoso e quindi non del Priebke, il quale non avrebbe partecipato ai momenti decisionali che hanno caratterizzato la preparazione e l'esecuzione dell'eccidio.
Giurisprudenza e dottrina hanno precisato, ormai con sufficiente chiarezza, che l'essenza della premeditazione va ravvisata nella persistenza del dolo nel tempo; tale connotazione, secondo la quale la premeditazione sarebbe la forma più intensa del dolo, giustificherebbe l'aggravante in quanto la realizzazione dell'evento costitutivo del reato scaturirebbe da una costante e matura riflessione, da lucidità e pieno governo del proprio comportamento (Cass. Sez. I, 18 giugno 1993, Paioni, in Cass. pen., 1995, 2152) che denoterebbe una più elevata capacità criminale. Trattandosi di una connotazione interiore, non rilevabile direttamente dall'esterno, la premeditazione deve essere desunta da fattori dotati di valore sintomatico, tra i quali funge da cornice il c.d. elemento cronologico, consistente in un apprezzabile intervallo di tempo tra risoluzione ed azione. All'interno di tale intervallo temporale un altro elemento dal quale si ricava solitamente la sussistenza della premeditazione è la c.d. macchinazione, cioè l'accurata predisposizione dei mezzi per l'attuazione del disegno criminoso da parte dell'agente.
Tuttavia, mentre l'intervallo temporale, sulla cui durata minima non si possono naturalmente stabilire indicazioni vincolanti, è estremo oggettivo connaturato all'essenza della premeditazione, la macchinazione rappresenta soltanto un possibile dato estrinseco capace di segnalare la maggiore concentrazione del dolo, non però un indispensabile requisito oggettivo della fattispecie. In altri termini, ove vi sia macchinazione o preordinazione, da essa può desumersi la prova della premeditazione; ma ove non si via, la prova della persistenza dolosa può ricavarsi altrimenti (su tali posizioni, per tutte, Cass. Sez. I, 15 marzo 1993, Ardito, in Cass. pen., 1994, 2695).
Ciò posto, nella fattispecie concorsuale la premeditazione, come dato contrassegnante l'intensità del dolo dei singoli concorrenti, può sussistere in alcuni e non sussistere in altri; il giudice deve procedere al relativo accertamento sulla base dei normali indici sintomatici. In particolare, può accadere che il singolo concorrente non abbia partecipato alla fase preparatoria del delitto, ma si sia giovato dell'altrui attività strumentale, all'interno di un definito piano criminoso. Simile situazione non esclude di per sé la configurabilità del dolo di premeditazione, se altrimenti ricavabile; può ben darsi, per esempio, che egli si rappresenti in modo pieno l'altrui attività di macchinazione e si rappresenti la propria condotta accessiva a tale attività, sicché potrebbe ben dirsi che il concorrente abbia fatto propria anche tale attività nell'ambito della ripartizione concorsuale dei compiti delittuosi.
Nel caso concreto, con riguardo alla posizione del Priebke, non sorgono dubbi in ordine alla sussistenza dell'aggravante. Si è visto che la sua attività di collaborazione in funzione dell'effettuazione dell'eccidio si è materializzata già prima che prendesse corpo l'idea di una sua diretta partecipazione e, in particolare, della sua stessa materiale uccisione di due persone. La preordinazione del delitto precede in tal caso la specifica assegnazione dei compiti ai singoli concorrenti: la persistenza del dolo si ricava, in relazione a tutte le uccisioni, dal significativo intervallo temporale tra l'inizio dell'attività collaborativa mirata (preparazione delle liste) e la materiale effettuazione delle uccisioni, nonché dall'insieme del comportamento tenuto dal Priebke durante tale intervallo, incondizionatamente dispiegato nell'ottimizzazione degli sforzi per la positiva riuscita della criminale operazione. Non mancò in lui, certamente, la possibilità temporale di riflettere sul crimine che stava contribuendo a realizzare; l'aver fornito con continuità, costanza ed efficienza simile contributo consente di escludere che, a fronte del significativo intervallo di tempo fra ideazione ed esecuzione, egli abbia maturato qualsivoglia dubbio capace di infrangere la graniticità della sua risoluzione criminosa. Né la pretesa assenza in capo al Priebke di poteri decisionali in ordine all'esecuzione dell'eccidio - dedotta nell'atto di appello - può incidere sulla persistenza del dolo, giacché un conto è il ruolo oggettivamente ricoperto all'interno della "societas sceleris", altro conto è l'atteggiamento costante e maturo del proposito criminoso, il quale può sussistere o no a prescindere da quello che è chiamato a fare il concorrente.
Con riguardo alla posizione dell'Hass, il ragionamento del giudice di primo grado non può essere condiviso. E' possibile che egli rimase sostanzialmente estraneo alla fase preparatoria dell'eccidio, ma da questo fatto non si può dedurre l'assenza nel medesimo di un dolo significativamente persistente. Si è accennato che la prova della premeditazione non necessariamente deve pervenire dall'esistenza di una attività preparatoria del delitto e che, comunque, sarebbe valutabile in tal senso l'atteggiamento del concorrente che si limita a giovarsi dell'altrui attività di macchinazione; ciò - si badi - non determinando una «forza espansiva» della premeditazione altrui che andrebbe ad oggettivarsi e quindi a comunicarsi al concorrente in virtù del testo previgente dell'art. 118 c.p., ma semplicemente fungendo da elemento probante della persistenza del dolo in capo al concorrente in questione.
Si è sopra ricostruito il comportamento dell'Hass relativamente ai fatti di causa e si è visto che almeno a partire dal mattino del giorno 24 egli venne informato dal Kappler della necessità di dar corso all'eccidio e dei preparativi che in tal senso si stavano compiendo, e che egli venne a conoscere, al più tardi nella riunione degli ufficiali delle ore 12, quale fosse il ruolo a lui demandato. Hass si prefigura, pertanto, tutta la fase preparatoria dell'eccidio, le modalità concrete della «ruota che girava» e si inserisce utilmente in quella organizzazione, quanto meno con qualche ora di anticipo sul momento in cui egli venne chiamato a «fare la sua parte». Il dolo investe non solo le condotte di materiale uccisione poste in essere, ma ha ad oggetto la sua partecipazione a tutte le altre uccisioni, in quanto rappresentazione della propria condotta concorsuale; egli ha il tempo di maturare una profonda riflessione sull'intera portata dell'operazione, sul suo contenuto di disvalore - opportunamente richiamato al riguardo dal superiore berlinese - sul ruolo che è chiamato a svolgere all'interno della macchina operativa. La risoluzione ad agire, che si forma evidentemente quando nel corso della riunione degli ufficiali egli non fa presente alcuna obiezione, sia pure più per cinico calcolo opportunistico che per intima convinzione o per ideologica aspirazione, passa indenne attraverso un periodo non lungo, ma egualmente congruo, in cui tutti i motivi inibitori avevano già potuto prendere corpo e ha così modo di sottoporsi ad una significativa verifica, al termine della quale, evidentemente, tale risoluzione ad agire esce rafforzata e matura, pronta a tradursi in atto.
Non solo, occorre sempre tener presente che tra la prima e la seconda uccisione di mano propria trascorre un periodo di tempo sicuramente non inferiore alle due ore. Durante tale intervallo l'Hass - ma il rilievo varrebbe, se ce ne fosse bisogno, anche per il Priebke -, dopo aver subito l'impatto psicologico della prima diretta uccisione, assiste impassibile al procedere della carneficina, al momentaneo rifiuto del Wetjen, al malcontento degli uomini delle SS in assenza del Kappler: tutto ciò non gli ha impedito di procedere alla seconda uccisione, l'esecuzione della quale non può che essere il prodotto della maturata elaborazione psicologica dei dati di realtà fino ad allora dal medesimo compiutamente percepiti.
La ritenuta sussistenza dell'aggravante della premeditazione anche in capo all'Hass consente, ovviamente, di non affrontare la questione, cui si è fatto cenno, della eventuale comunicabilità di tale circostanza in base al vecchio testo dell'art. 118 c.p.
Infine, va rilevato che è giuridicamente irrilevante stabilire se la premeditazione, come sopra accertata in capo ad entrambi gli imputati, sussista anche rispetto alle uccisioni non preventivate dei testimoni, eventualmente in linea con quanto statuito dal Tribunale supremo militare nel 1952, che la negò con riferimento alla posizione del Kappler: trattandosi, invero, di reato continuato è sufficiente accertare che l'aggravante sussiste in relazione ad almeno una delle violazioni attuative del medesimo disegno criminoso e a tale conclusione si giunge senz'altro alla stregua di quanto precede.
3.3.9. L'impugnata sentenza ha esaurientemente motivato in relazione alla sussistenza a carico di entrambi gli imputati dell'aggravante dell'aver agito con crudeltà verso le persone, di cui agli artt. 61, n. 4, e 577, comma 1, n. 4, c.p. La difesa del Priebke, nell'atto di appello, rileva in contrario che si deve escludere la sussistenza di tale aggravante in capo a costui, non essendogli attribuibili «scelte in ordine alle modalità di esecuzione che (...) furono, successivamente alla comunicazione dell'ordine, assunte dal solo Kappler e, solo successivamente a tale momento, nelle primissime ore del pomeriggio, comunicate ai suoi subordinati».
In giurisprudenza si asserisce che ricorre l'aggravante in questione quando «si infliggono sofferenze che oltrepassano i limiti del normale sentimento di umanità» (così, Cass. Sez.III, 5 giugno 1985, Lombardo, in Cass.pen., 1986, 1930; analogamente, da ultimo, Cass. Sez. I, 7 marzo 1996, Flore, m. 204.071). Per concludere affermativamente sull'avvenuto superamento di tali limiti nell'esecuzione della strage - come già riconosciuto nelle sentenza del 1948, richiamata sul punto dalla sentenza impugnata - basta leggere la relazione dei medici legali sulle modalità di rinvenimento dei cadaveri delle vittime, ovvero trascrivere le poche righe della sentenza del Tribunale supremo militare del 1952, nella parte in cui conferma la sussistenza dell'aggravante in parola. Al avviso di quel giudice, «la manifestazione dell'eccesso di malvagità, in cui consiste la crudeltà, è nella stessa materialità del fatto, caratterizzato, nelle concezione e nell'esecuzione, da una spietatezza e da una insensibilità morale di macroscopica evidenza: una strage enorme, compiuta su gruppi di innocenti, privati di qualsiasi assistenza, ignari della loro tragica sorte sino al momento del loro arrivo all'ingresso della grotta, nel cui interno, in uno scenario orrendo, la messa a morte ha luogo in circostanze così terrificanti da far svenire uno dei componenti del plotone di esecuzione e da reclamare, per vincere la riluttanza dei più, l'esempio degli ufficiali».
Quanto alla posizione dei due odierni imputati, è chiaro che aver contribuito a porre in essere una simile strage, così visibilmente connotata da crudeltà, significa aver fatto proprie anche tali modalità attuative contrarie al senso di umanità, a prescindere dal ruolo che si sia ricoperto nelle individuazione o deliberazione di esse. Ciò che conta - a parte il ruolo svolto "a tavolino" nell'elaborazione del disegno criminoso - è che tali modalità si appalesarono subito agli imputati, i quali, agendo in quel contesto, non solo le "recepirono", ma contribuirono a realizzarle, così che è la loro stessa condotta ad essere contrassegnata da quelle modalità. Non si assiste, in altre parole, ad un fenomeno di trasmissione oggettiva di quelle modalità crudeli, giuridicamente concepibile solo ove all'aggravante in parola si assegnasse - come taluno fa - natura oggettiva, ma semplicemente ad una condotta concorsuale anche soggettivamente marcata dalla crudeltà, con specifico riferimento alla volontà colpevole dei due odierni imputati.
Del resto tutti i dati sopra richiamati a supporto delle conclusioni inerenti la consapevolezza dell'illiceità della condotta e la persistenza del dolo integrante la premeditazione, fondati sui «segnali» di spiccata crudeltà della strage, univocamente conducono a ritenere sussistente anche tale specifica aggravante, così immediatamente caratterizzante il grado della colpevolezza degli imputati.
3.3.10. Non possono essere applicate nella specie, invece, le aggravanti dell'essere concorso l'imputato con un inferiore (art. 58, comma 1, c.p.m.p.), nei confronti dell'Hass, nonché dell'essere concorse nel reato cinque o più persone (art. 112, comma1, n.1, c.p.), nei confronti di entrambi, come espressamente richiesto nell'atto di impugnazione del Procuratore generale militare. Tali aggravanti, infatti, non risultano ritualmente contestate attraverso l'indicazione degli articoli di legge a cui si riferiscono, sicché, seppure verosimilmente sussistenti nella specie, di esse non si può tener alcun conto. L'art. 429 c.p.p., regolando le modalità dell'imputazione, richiede l'enunciazione delle circostanze aggravanti e l'indicazione dei «relativi articoli di legge» nel decreto che dispone il giudizio, a pena di inefficacia della contestazione o di nullità parziale del decreto (il comma 2 parla di nullità "tout court" evidentemente riferendosi soltanto all'enunciazione del fatto e alla indicazione degli articoli di legge ad essi relativi, ma dovrebbe trattarsi di nullità parziale relativamente alla aggravanti, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 522, comma 2, c.p.p.).
Neppure risulta con chiarezza l'enunciazione delle aggravanti in questione, nel senso che, se gli estremi di fatto in cui consistono possono anche ricavarsi implicitamente dal tenore letterale del capo di imputazione, dallo stesso non emerge che tali estremi rilevano in quanto integranti delle ipotesi circostanziali; onde, proprio per tale equivocità, sarebbe stato comunque indispensabile il riferimento degli articoli di legge ad esse relative. In mancanza di tale riferimento e della chiara enunciazione richiesta dalla legge ritenere contestate le aggravanti indicate dall'impugnante significherebbe violare il diritto di difesa; non si potrebbe concludere per la sussistenza delle medesime senza incorrere nella sanzione processuale prevista dall'art. 522 c.p.p.
3.3.11.Contrariamente a quanto deciso dal giudice di primo grado, non ricorre ad avviso di questa Corte, per entrambi gli imputati, l'attenuante della determinazione al reato da parte del superiore, di cui all'art. 59, n. 1, c.p.m.p. Rileva sul punto la sentenza impugnata (v. sopra § 1.1.10) che gli imputati hanno partecipato all'eccidio «solo per adempiere all'ordine impartito da un superiore dotato come il Kappler di un'indubbia capacità carismatica» e non «in forza di una loro autonoma, indipendente scelta criminosa», in particolare che l'Hass non fu certo motivato «da una entusiastica volontà di protagonismo» e che il Priebke ha partecipato all'eccidio «con modalità diverse rispetto a quelle dell'Hass in conseguenza delle funzioni da lui svolte all'interno del Comando militare tedesco di Via Tasso».
E' subito agevole notare come tali affermazioni cozzino con quanto sopra ricostruito circa la rilevanza giuridica dell'ordine criminoso e circa la sua concreta forza motivante la condotta dei due imputati (v. § 3.3.4), per cui occorre verificare se, nonostante quelle conclusioni, vi sia spazio per l'applicazione dell'attenuante in questione.
Tale previsione normativa trova corrispondenza nell'attenuante stabilita dal codice penale comune all'art. 114, comma 3, sancita in favore di chi, senza essere non imputabile, è stato determinato a commettere il reato avendo meno di 18 anni o trovandosi in stato di infermità o di deficienza psichica (art. 112, comma 1, n.4, c.p.), nonché comunque da persona esercente nei suoi confronti «autorità, direzione o vigilanza» (art. 112, comma 1, n.2, c.p.). Evidente la ratio di queste norme: merita un attenuazione della pena, in parallelo con il diminuito grado di colpevolezza, chi è stato indotto alla commissione del reato solo a cagione dell'abuso di una posizione di soggezione o di minorazione psichica in cui versava il concorrente da parte di altri.
Qualche chiarimento richiede invece l'impiego del termine «determinazione» ricorrente in materia. Ad avviso del Collegio, non può condividersi l'opinione, talvolta affacciatasi in dottrina e giurisprudenza, secondo la quale la «determinazione» si differenzierebbe dall'«istigazione» per essere la prima condotta tale da far sorgere "ex novo" il proposito criminoso e la seconda condotta tale da semplicemente rafforzare un proposito già presente, ma incompleto od in itinere. Tale distinzione non solo appare concretamente problematica, ma è anche arbitraria, dal momento che non si vede alcuna ragione logica per escludere l'attenuante in favore di colui che sia stato "semplicemente" istigato alla commissione del reato, trovandosi in una delle situazioni sopra indicate, e, corrispondentemente, per non applicare l'aggravante di cui agli artt. 111 e 112, comma 1, nn.3 e 4, c.p. a colui che abbia "semplicemente" istigato la persona in questione.
Più probabile che con l'espressione «istigazione» il legislatore abbia voluto indicare una condotta di partecipazione (morale) al reato, mentre con l'espressione «determinazione» abbia invece designato una condotta di approfittamento di una posizione di supremazia e della condizione di minorazione della capacità di resistenza psicologica di una persona. In altri termini, con l'istigazione siamo sul campo delle forme di partecipazione al reato, con la determinazione si attua un approfondimento del grado di colpevolezza dei singoli concorrenti. Maggiore è quello del determinatore, non perché ha fatto sorgere un proposito criminoso prima insussistente, ma perché ha abusato di una posizione di supremazia che gli ha consentito di vincere minori resistenze; più attenuato il grado di colpevolezza del soggetto determinato, non perché senza la determinazione altrui egli non avrebbe commesso il reato, ma perché la sua minorata capacità a fronte dell'abuso rende meno riprovevole la deliberazione di commettere il reato, comunque assunta.
Solo così si spiega perché il termine «determinazione» è sempre associato alla descritta condizione del soggetto determinato, mentre, se avesse riferimento al tipo di incidenza sulla deliberazione criminosa sarebbe concepibile nei confronti di chiunque.
Ciò posto, non si tratta di verificare se senza l'ordine di Kappler o di Kesselring, o di Hitler, i due odierni imputati, di loro iniziativa avrebbero o no commesso gli omicidi ascritti loro, perché tale problematica eziologica è estranea alla dimensione tutta soggettiva dell'attenuante in parola, ad integrare la quale occorre rilevare una volontà colpevole meritevole di minor riprovevolezza. Questa è verosimilmente la ragione per la quale l'attenuante è meramente facoltativa, spettando al giudice non già un riscontro meccanicistico, ma un giudizio di meritevolezza in cui non può che giocare un ruolo decisivo lo stesso livello di gravità del fatto determinato. Infatti, più quest'ultimo fatto si presenta corredato di contrassegni di gravità e odiosità, maggiori sono le controspinte che deve vincere l'inferiore che si determini a commettere il reato e corrispondentemente minore è la possibile incidenza dello stato di soggezione indotto dalla differenza di grado.
Esclusa, dunque, la praticabilità di una prospettiva causale-meccanicistica, va rilevato come nella vigenza dell'art. 40 c.p.m.p. poco spazio residuava per l'applicazione dell'art. 59, n. 1, c.p.m.p. in presenza di un ordine del superiore la cui esecuzione costituisse reato. Infatti, normalmente - come si è visto - l'inferiore non rispondeva dell'esecuzione dell'ordine illecito, essendo inesigibile il comportamento disobbediente. Lo spazio per la responsabilità a titolo di concorso con il superiore era riconducibile ai casi di criminosità manifesta in cui il conflitto di doveri in capo all'inferiore non si realizzava per il venir meno del dovere di obbedienza.
Ma in tali casi, così come sfuma la prospettiva dell'ordine giuridicamente vincolante, si disperde anche la possibilità di reperire uno spiraglio per l'applicazione della attenuante della determinazione attuata per il tramite dell'ordine. Se, ad onta della palese criminosità della prestazione richiesta, l'inferiore si motiva all'azione, non si può parlare dello sfruttamento di una posizione di minorazione psicologica da parte del superiore, ma di una sua piena collaborazione su base paritaria al reato in concorso.
Il rilievo dell'ordine e della «determinazione» che tramite questo si realizza resta confinato nella sfera meccanicistica, nel senso che nello svolgimento dell'attività militare la gran parte delle prestazioni è fisiologicamente ricollegabile ad una volontà superiore, poco o punto spazio essendovi per l'iniziativa del singolo, e non impinge la sfera della colpevolezza, che resta integra nonostante la obiettiva riconducibilità della condotta del concorrente all'ideazione criminosa del superiore.
Evidentemente, nell'impianto originario del codice l'attenuante in questione trovava spazio applicativo in altre situazioni, in cui l'influenza del superiore, la sua autorità, la sua qualità, la sua posizione gerarchica avessero indotto l'inferiore alla commissione del reato, a prescindere dal ricorso all'ordine.
Queste valutazioni ricavabili dalla sistematica delle norme trovano riscontro nel caso concreto, dove - come si è detto - più che un ordine si individua un accordo criminoso tra gli ufficiali delle SS per la realizzazione di un risultato di comune appetizione. Essi agirono come un sol uomo e tale sincronismo nella commissione di un così efferato crimine non si può ottenere ricorrendo all'abuso della posizione derivante dal grado militare, ma solo se vi è assoluta identità di intenti e comune sentire.
Né un ruolo, sotto questo profilo, può giocare quell'«abito mentale» di appartenente alle SS, attorno a cui la sentenza del 1948 ha costruito addirittura conclusioni assolutorie. L'abito mentale non rappresenta una tunica di Nesso in cui il sottoposto si trova improvvisamente ad essere avvolto. Esso si cuce giorno dopo giorno, rispondendo in un certo modo alle sollecitazioni e agli interrogativi che la vita propone, e con ciò scegliendo liberamente e comunque non sempre cedendo di fronte ad ostacoli insormontabili. Il possesso di un abito dissonante rispetto ai valori di umanità universalmente riconosciuti, come non esclude la responsabilità, così non la può attenuare, perché inevitabilmente l'uomo infine agisce pur sempre in conformità all'abito che egli si è consapevolmente prescelto.
L'obiezione, più volte risuonata nelle parole dei difensori degli imputati, che così facendo si fonda la responsabilità non sul comportamento tenuto ma sulla personalità dell'individuo, sulla condotta della vita, giungendo alla scorciatoia di una colpa d'autore, è solo un suggestivo espediente dialettico, se opposto nel caso di specie. Qui, oggetto del giudizio di colpevolezza, sia con riguardo all'"an" sia con riguardo al "quantum", è il fatto commesso dagli imputati, la gravità del quale può trovare semmai nella coerenza con l'abito mentale dell'autore una qualche spiegazione. Con ciò non si sposta l'oggetto del giudizio di colpevolezza dal fatto all'autore, o al tipo d'autore, ma semplicemente si colloca il primo nel secondo per constatare come quella spiegazione non potrebbe mai divenire una giustificazione o una ragione di attenuazione della responsabilità, così come, del resto, non è consentito che diventi una ragione di aggravamento.
In conclusione, siccome gli imputati trovarono in sé medesimi e nel loro abito mentale - il che è lo stesso - la forza per commettere il delitto al quale erano chiamati, senza che il Kappler o i suoi superiori dovessero abusare del loro grado per convincerli, non essendovi «determinazione» rilevante non vi è ragione per muovere nei loro confronti un più tenue giudizio di colpevolezza e quindi per applicare l'attenuante dell'art. 59, n. 1, c.p.m.p., invece ritenuta sussistente dal giudice di primo grado.
3.3.12. Nei confronti del solo imputato Hass la sentenza impugnata applica anche l'attenuante di cui all'art. 59, n.2, c.p.m.p., relativa al militare che «nella preparazione o nella esecuzione del reato ha prestato opera di minima importanza» (v. sopra § 1.1.11). Tale attenuante sarebbe inapplicabile per il Procuratore generale militare e per il Procuratore militare impugnanti, in quanto ricorrerebbero le condizioni ostative dell'essere concorso l'imputato con un inferiore (art. 58, comma 1, c.p.m.p.), nonché dell'essere concorse nel reato cinque o più persone (art. 112, comma1, n.1, c.p.), condizioni queste espressamente previste dalla seconda parte della disposizione che prevede l'attenuante in questione. Anche a prescindere dalla contestazione formale di tali circostanze aggravanti ostative - cosa che peraltro per gli impugnanti è «sostanzialmente e chiaramente» avvenuta, «sia pure con l'irregolarità dell'omessa indicazione delle disposizioni di legge» - le situazioni indicate, risultanti dal capo di imputazione, rileverebbero per la loro semplice sussistenza in concreto.
Quanto alla ritenuta contestazione «sostanziale» delle circostanze aggravanti che sarebbero ostative all'applicazione della attenuante della minima importanza, si richiama la conclusione negativa raggiunta nel § 3.3.10.
Quanto alla non necessità di una formale contestazione degli estremi di fatto posti a base di tali aggravanti, ai fini dell'applicabilità dell'attenuante in parola, le argomentazioni contenute nell'atto di impugnazione paiono fondate. In particolare, mentre ai fini dell'aumento della pena - effetto tipico delle aggravanti - è richiesta una formale contestazione della circostanza, ad altri fini il potere di accertamento fattuale del giudice non incontra ostacoli diversi da quello della giuridica rilevanza. Del resto, la seconda parte del n. 2 dell'art. 59, così come la corrispondente disposizione contenuta nell'art. 114, comma 2, c.p., eccettua «i casi indicati nell'articolo precedente», facendo un richiamo dei fatti ivi descritti. La portata "contenutistica" della eccezione legislativa è confermata dal rilievo che la dottrina e la giurisprudenza sono solite parlare di incompatibilità espressa tra la fattispecie della minima importanza e quelle delineate nelle indicate previsioni aggravatrici, come se il legislatore avesse preso atto di un dato "ontologico".
Non trattandosi quindi di stabilire se ci si trovi di fronte ad uno sbarramento, per così dire, pregiudiziale, il Collegio ritiene di non doversi comunque pronunciare sulla questione posta nei termini indicati nell'impugnazione, giacché per altra via giunge al medesimo risultato di non poter, comunque, considerare applicabile nei confronti dell'imputato Hass l'attenuante della minima importanza.
Invero, l'impugnata sentenza è incorsa nell'errore di valutare a tal fine il contributo fornito da Hass nella collettiva effettuazione dell'eccidio, giungendo alla conclusione che egli è stato «chiamato, su ordine del Kappler, ad uccidere come altri ufficiali tedeschi due dei trecentotrentacinque martiri, senza dover in alcun altro modo partecipare alla realizzazione dell'evento criminoso». Senza esaminare nel merito questa conclusione, che peraltro si pone in contrasto con quanto sopra rilevato circa le modalità di partecipazione all'eccidio da parte di Hass (v. § 3.3.7) e che comunque non dà conto del perché tali limitate modalità di partecipazione rappresentassero un contributo di minima importanza alle uccisioni effettuate da altri, l'errore consiste nella valutazione dell'eccidio come unico fatto criminoso. Si tratta di una valutazione non dovuta a disattenzione nella stesura della motivazione, ma di una scelta consapevole da parte del giudice di primo grado, il quale in altra parte della sentenza rileva «come nel caso di specie la continuazione tra i singoli eventi criminosi si connoti con caratteri del tutto peculiari. Al di là, infatti, di ogni formalismo giuridico, non può seriamente negarsi che, nella sostanza, si è in presenza di una condotta sostanzialmente unitaria, sorretta da un unico processo volitivo che assume giuridico rilievo prescindendo dall'entità numerica delle vittime» (cfr. p. 111 s.).
Tale prospettiva sarebbe autorizzata, "de iure condito", se fosse presente nel sistema una norma che punisce in quanto tale l'eccidio in massa della popolazione civile; la mancanza di una simile norma, stigmatizzata dal giudice di primo grado come «evidente inadeguatezza legislativa», avrebbe dovuto sconsigliare l'adozione dell'indicata soluzione, che presta il fianco alla critica della commistione tra necessità di applicazione del diritto vigente e aspirazione ad una razionale riforma della legislazione.
In base al diritto vigente, oggi come all'epoca dei fatti, l'eccidio delle Cave Ardeatine integra niente altro che il contestato reato di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di 335 «privati nemici», per cui applicare in particolare la disciplina della continuazione è doveroso per il giudice. Del resto non è neppure corretto parlare di «unico processo volitivo», dato che ogni singola uccisione fu supportata da una autonoma deliberazione di agire, dal superamento dei motivi a trattenersi dall'azione (controspinta criminosa), anche se si trattava di percorrere un terreno già "arato" dalle singole omologhe deliberazioni attuate dai compartecipi. In questa maggiore "facilità" della deliberazione criminosa è vista, infatti, la ragione del trattamento favorevole riservato al reato continuato rispetto al concorso materiale di reati, ma senza che si possa parlare di unicità volitiva (come nel codice Zanardelli), in luogo del più esatto concetto di unicità del «disegno criminoso».
Non è per mero «formalismo», ma in applicazione del diritto vigente che nel caso "de quo" si riscontrano più azioni, più eventi e più volontà colpevoli, sia pure unificate a titolo di continuazione.
Ciò posto, il concorrente che, come Hass, esegue di mano propria due uccisioni non potrà mai essere considerato, con riferimento ai due delitti di omicidio di cui è autore materiale, partecipe di minima importanza, avendo invece, come è evidente, fornito un contributo assolutamente primario alla realizzazione degli eventi costitutivi. Il fatto che poi, in relazione agli altri omicidi, possa aver svolto un contributo non decisivo - ma non è così - potrà assumere semmai rilievo ai fini della determinazione dell'aumento sanzionatorio conseguente alla riconosciuta continuazione degli episodi criminosi, ma non giustificare l'applicazione dell'attenuante di cui all'art. 59, n. 2, c.p.m.p. anche per il reato «più grave», tale essendo quello (o quelli) in cui il concorrente ha operato come autore principale.
Per questa via è da ritenere erronea la concessione all'imputato Hass dell'attenuante in esame, a prescindere dalla eventuale incompatibilità denunciata nell'atto di impugnazione del Procuratore generale.
3.3.13. Anche quanto alle c.d. attenuanti generiche, di cui all'art. 62 bis c.p., concesse dal giudice di primo grado ad entrambi gli imputati, vengono sollevati due distinti ordini di questioni: uno relativo all'applicabilità dell'istituto ai fatti di causa, uno relativo alla fondatezza dell'avvenuta applicazione. In tal caso non essendovi profili di interferenza tra i due ordini di questioni, se ne impone una trattazione separata.
Secondo il Procuratore generale militare all'applicazione delle circostanze attenuanti osterebbe l'avvenuta introduzione della norma che le prevede in epoca successiva alla commissione del fatto (l'art. 62 bis è stato introdotto nel codice penale dall'art. 2 d. lgs. lgt. 14 settembre 1944, n.28). L' art. 23 c.p.m.g., infatti, sancendo il carattere «ultrattivo» delle legge penale militare di guerra, in linea con la regola dell'art. 2, comma 4, c. p., riferita più in generale alle leggi eccezionali o temporanee, determinerebbe la «impermeabilità» dell'intera disciplina penale del fatto vigente nel marzo 1944 rispetto a qualsiasi modificazione successivamente intervenuta, riguardi essa non solo la legge penale militare di guerra, ma anche la legge penale militare di pace e la legge penale comune, non solo le scelte di incriminazione o le comminatorie edittali, ma anche tutti gli altri istituti, comprese le circostanze, che determinino o possano determinare in concreto la misura della sanzione penale, sia essa più o meno favorevole all'imputato.
Un'unica deroga sembrerebbe al più consentita - si legge nell'atto di impugnazione -, ma solo se la legge successiva è «legge intesa a regolare la medesima materia sempre in aderenza allo stato di eccezione e con stretto riferimento ad esso», condizione questa che non ricorrerebbe per le circostanze attenuanti generiche, la cui introduzione in tempo di guerra «di certo non era precipuamente intesa a regolare la situazione di eccezione».
La questione era stata esaminata dal Tribunale, ma risolta in modo meno drastico. Nella sentenza impugnata grande spazio è dedicato all'interpretazione dell'art. 23 c.p.m.g., con particolare riferimento al regime di valutazione delle concorrenti circostanze (p. 87 ss.). Si dà atto che tale norma costituisce attuazione del principio ricavabile dal comma 4 dell'art. 2 c.p., si conclude dopo un ampio percorso argomentativo che l'effetto «ultrattivo» deve essere necessariamente esteso «a tutte quelle disposizioni (...) funzionalmente incidenti sulla quantificazione della pena per il singolo delitto», ma quanto alle attenuanti generiche se ne sancisce l'applicabilità «poiché l'art. 23 c.p.m.g. fa genericamente riferimento alla legge penale militare di guerra e non a quella (come integrata dalla legge penale comune) vigente al momento del commesso reato». In altri termini, ciò che resterebbe impermeabile al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace non sarebbe la (intera) disciplina penale vigente al momento del fatto, ma la (intera) disciplina penale vigente al momento del passaggio stesso.
Si contengono, dunque, il campo almeno tre possibili versioni della cosiddetta ultrattività della legge penale militare di guerra: quella più restrittiva, che la vedrebbe limitata alle sole comminatorie penali fisicamente contenute in tale legge, sulla falsariga di quanto si ritiene in relazione all'art. 20 l. 7 gennaio 1929, n.4, per le leggi finanziarie; quella più estensiva che leggerebbe nell'art. 23 c.p.m.g. la cristallizzazione della ferrea regola del «tempus regit actum» per i fatti commessi in tempo di guerra; quella intermedia che consentirebbe comunque la successione della norma penale più favorevole avvenuta durante lo stato di guerra.
L'art. 23 assolve una chiara funzione di garanzia dell'effettività dell'applicazione delle norme penali vigenti per il tempo di guerra, che altrimenti rischierebbe di venir frustrata a fronte della regola generale dell'applicazione comunque della legge più favorevole al reo in caso di successione di leggi penali. Tale disposizione è stata dettata da una duplice preoccupazione del legislatore del 1941: da un lato che l'aver costruito la legge penale militare di guerra come una legge ad applicabilità condizionata - o, come talvolta si dice, normalmente vigente ma "in frigorifero" - determinasse una vicenda di vera e propria «successione di leggi penali» nel succedersi di fattori "scongelanti" e "congelanti"; d'altro lato, in collegamento con la prima preoccupazione, che la materia non fosse già riconducibile all'ipotesi del comma 4 dell'art. 2 c.p., occorrendo quindi una più chiara esplicitazione.
Verosimilmente si trattò di preoccupazione infondata, una volta verificato che il sistema di applicazione condizionata - anche laddove la condizione possa sussistere o no in uno specifico arco temporale e riferirsi ad un complesso normativo articolato come la legge penali militare di guerra - non determina, comunque, un problema di intertemporalità, ma semplicemente dà luogo ad un fenomeno di coesistenza di norme, regolabile con i consueti criteri della specialità e della sussidiarietà.
In ogni caso, nella norma dell'art. 23, anche se letta come corollario di quella di cui all'art. 2, comma 4, c.p., non si potrebbe trovare la conclamazione ferrea della regola del "tempus regit actum", non solo perché ultronea rispetto alla ratio ispiratrice, ma anche perché non lo consentirebbe il tenore letterale della norma stessa. Essa sancisce la regola della cosiddetta ultrattività solo con riferimento ai reati «commessi durante lo stato di guerra» e quindi non anche nelle altre situazioni condizionanti l'applicazione della legge penale militare di guerra (es. corpi di spedizione all'estero ex art. 9 c.p.m.g.); inoltre - come esattamente rileva il tribunale - riferisce il limite temporale dell'effetto stabilito al momento successivo alla «cessazione dello stato di guerra», così rimettendo la disciplina della (vera) successione di leggi durante lo stato di guerra alle regole generali.
La soluzione patrocinata nel ricorso del Procuratore generale militare contrasta, dunque, con quanto stabilito dall'art. 23 e potrebbe essere sostenuta solo riferendo la pretesa completa «impermeabilità» direttamente all'art. 2, comma 4, c.p. Simile prospettazione non è, tuttavia, condivisibile perché, da un lato, oblitera il disposto dell'art. 23, nel quale il legislatore ha integralmente rassegnato la materia della intertemporalità connessa alla vigenza della legge penale militare di guerra, d'altro lato, si fonda su un presupposto, quale la qualifica di legge eccezionale riferita alla legge penale militare di guerra, tutt'altro che pacifica, nella sua conclamazione e comunque nella sua portata.
In conclusione, sul punto, se anche si volesse ritenere accettabile per coerenza interna la soluzione "intermedia" patrocinata dal giudice di primo grado, per la quale l'ultrattività riguarderebbe non solo le comminatorie penale, ma tutte le disposizioni comunque regolanti il momenti applicativo della sanzione, non può invece condividersi l'interpretazione proposta dal Procuratore generale comportante l'inapplicabilità ai reati contestati delle circostanze attenuanti generiche.
3.3.14. L'applicazione di tali attenuanti va invece esclusa nel merito nei confronti di entrambi gli imputati.
L'art. 62 bis c.p. autorizza il giudice a prendere in considerazione circostanze «diverse» da quelle tipiche, «qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena». L'operazione a cui è chiamata questa Corte deve prescindere dalle svariate riserve critiche formulate nei confronti di tale norma e prendere semplicemente le mosse dal rilievo che trattasi di esercitare un potere discrezionale di commisurazione «in senso lato», riguardando la misura della sanzione da irrogare con possibile effetto extraedittale, ma anche «a senso unico», essendo facultizzata la ricerca giudiziale solo in funzione di attenuazione delle conseguenze sanzionatorie. La norma scandisce due momenti dell'operato del giudice: quello della «ricerca» degli elementi favorevoli e quello della «valutazione» degli elementi eventualmente reperiti.
La prima attività non incontra limiti di sorta, potendo avere ad oggetto sia modalità concrete del fatto di reato, sia indicazioni relative alla persona del reo, sia elementi di natura processuale. La seconda attività deve invece essere inevitabilmente esercitata secondo dei parametri logico-normativi; in particolare occorre, nel silenzio del legislatore, che il giudice soppesi l'elemento di per sé e anche in comparazione con altri e che nel far ciò tenga conto della destinazione specifica di tale valutazione, consistente come detto nella individuazione di una sanzione adeguata (per tali indicazioni metodologiche, Cass. Sez.I, 23 giugno 1989, Arbore, in Cass. pen., 1991, 1767; Cass. Sez. IV, 10 ottobre 1988, Boncore, in Cass. pen., 1990, 604).
In tale delicato procedere va esclusa la fondatezza di operazioni trancianti, in un senso e nell'altro: così, la sola gravità oggettiva del fatto, di per sé, non può costituire elemento invalicabile per la concessione dell'attenuante in parola, e, d'altra parte, non sarebbe neppure consentito operare la diminuzione sol che si rinvenga, tra i molteplici elementi di rilievo, un unico dato eventualmente favorevole al reo.
Va del pari escluso, tuttavia, che il giudice debba procedere necessariamente ad una sorta di comparazione di elementi simile a quella descritta nell'art. 69 c.p., perché l'effetto sancito dell'art. 62 bis è pur sempre «a senso unico», e ben potendo l'attenuante ritenuta sussistente eventualmente soccombere nella sede propria del giudizio di bilanciamento.
Ciò premesso, per quanto riguarda la «ricerca» di simili elementi attenuanti indefiniti nel caso concreto, la Corte si riporta ai risultati a cui è giunto il giudice di primo grado, non essendo emerso dai contributi delle parti in questa sede processuale alcun elemento già non valutato da quel giudice.
La sentenza impugnata individua un primo elemento favorevole ai rei nei «motivi a delinquere» che hanno assistito lo loro condotta, sul rilievo che essi «hanno preso parte al massacro delle Cave Ardeatine non per rispondere ad una sorta di entusiastico quanto delittuoso protagonismo, ma solo perché chiamati ad assolvere ruoli consequenziali alle funzioni da loro più ampiamente esercitate nell'organigramma del Comando tedesco in Roma». Discutibile, però, appare l'affermazione in sé, essendosi dimostrato, al contrario, che Hass avrebbe potuto trovare un qualsiasi pretesto per sottrarsi all'operazione e che Priebke ha assolto i compiti di fiducia assegnatigli con lo zelo pari al "credito" che lo circondava, di essere il braccio destro di Kappler, e comunque non già per supina e "minimale" obbedienza; del tutto indimostrato, invece, è il tasso di "positività" dell'elemento rinvenuto, giacché l'assolvimento di «ruoli consequenziali alle funzioni», anche ammesso che di questo si sia trattato e che ciò non possa essere considerato un motivo abietto o riprovevole - quale invece è l'«entusiastico e delittuoso protagonismo» -, non costituisce un motivo a delinquere meritevole o apprezzabile. Prima ancora, quindi, di sottoporre alla valutazione un simile elemento, si deve concludere che esso non possa rientrare nel novero delle circostanze «diverse» oggetto di interesse.
Analogamente dicasi per la condotta di vita antecedente al reato, che con riguardo al solo Hass il giudice di primo grado sembra prendere in positiva considerazione. Egli, si precisa, non ha partecipato in alcun modo «all'attività, autenticamente criminosa, che si teneva in Via Tasso». In effetti non risulta alcun diretto coinvolgimento dell'Hass nei crimini che si perpetravano nella prigione nazista - altro conto è escludere che egli non fosse consapevole di ciò -, ma tale affermazione equivale ad escludere un possibile elemento negativo nella valutazione della vita anteatta, non, come si vorrebbe, ad averne trovato uno positivo.
Quanto alla condotta susseguente al reato, invece, l'assenza di condotte criminose giuridicamente ascrivibili ai due imputati, costituisce un possibile elemento favorevole, in base a consolidata giurisprudenza.
Il Priebke, infatti, risulta aver vissuto in Argentina senza nascondere la propria identità e senza commettere ulteriori reati; l'Hass risulta aver lavorato per i servizi informativi segreti, venendo in qualche modo regolarmente fornito di un nominativo di copertura.
Accanto a questo rilievo, il Tribunale prende in considerazione il comportamento processuale degli imputati, rilevando come il fatto che si siano sottratti all'esame dibattimentale non osti alla concessione delle attenuanti generiche e come costoro abbiano comunque «ammesso di aver personalmente cagionato la morte di due prigionieri, pur in un quadro complessivo volto, in certo qual modo comprensibilmente, a sminuire i propri rispettivi ruoli». Sotto questo riguardo va anche notato che la difesa del Priebke nella discussione orale innanzi a questa Corte ha sollecitato a considerare positivamente la confessione sottoscritta dall'imputato nel campo di prigionia alleato in Afragola.
I rilievi contenuti nella sentenza impugnata sono da condividere, ma non portano alla conclusione che il comportamento processuale dei due imputati sia un elemento da poter valutare in senso positivo ai fini delle attenuanti generiche, dal momento che, pur non denotando scorrettezze, non segnala neppure alcun significativo profilo collaborativo. In particolare, entrambi gli imputati hanno ammesso i fatti che risultavano già ampiamente provati, quali la loro partecipazione alla strage e la personale uccisione di due martiri, negando altresì fatti che "aliunde" sono stati provati, come la presenza dell'Hass durante l'intera l'esecuzione dell'eccidio, o comunque nei momenti più importanti, e la pressoché costante tenuta delle liste da parte del Priebke, nonché il ruolo di costui all'interno del comando di Via Tasso e nella predisposizione delle liste. Quanto alla pseudoconfessione del Priebke in Afragola, è stata sopra dichiarata inutilizzabile (§ 3.2.4.) e quindi il suo contenuto non può venir esaminato neppure in questa sede e in "favor rei"; del resto sarebbe incongruo non tener conto di quel documento per il rischio che non sia riproduttivo di una spontanea dichiarazione proveniente dall'imputato e poi valutarne positivamente l'esistenza a riprova di una valida e genuina collaborazione processuale.
L'ultimo elemento rinvenuto dal Tribunale consiste nell'«età avanzatissima degli imputati» che dovrebbe condurre alla conclusione di una «ormai affievolita» loro capacità a delinquere, «avuto riguardo al tempo assai risalente del commesso reato». Tale elemento, ad avviso del giudice di primo grado, ha un rilievo autonomo rispetto a quello della condotta susseguente al reato, come dimostrerebbero norme del codice di procedura penale dettanti condizioni di favore per le persone anziane e comunque tenendo conto «del tempo trascorso dalla commissione del reato». Non v'è dubbio che ciò debba essere tenuto presente dal giudice, perché trattasi di connotazioni del tutto peculiari sul piano processuale, potenzialmente traducibili in elementi favorevoli agli imputati.
Passando dalla «ricerca» alla «valutazione» dei dati, emerge, dunque, che oggetto dell'apprezzamento discrezionale del giudice è, in sostanza, il trascorrere del tempo dalla commissione del reato in assenza di un giudizio processuale sulla responsabilità penale degli imputati, i quali - forse incolpevolmente - hanno inteso tale passaggio del tempo come inequivocabile sintomo di un oblio giudiziario in cui era caduta la loro vicenda processuale. Orbene, si è visto come questo elemento che in maniera singolare caratterizza l'odierno processo abbia intanto potuto indurre una più matura riflessione sulla valutazione giuridica degli accadimenti, mentre, di per sé, non è idoneo a determinare alcun effetto favorevole diverso dalla prescrizione dei reati. Il passaggio del tempo dal commesso reato è un dato processualmente neutro; l'età che gli imputati hanno raggiunto a causa di esso è circostanza che richiede l'adozione di specifiche misure processuali di favore che il codice puntualmente prevede, ma rappresenta un dato pressoché insignificante ai fini della commisurazione della pena (anche in senso lato).
Che l'età avanzatissima riduca la «capacità a delinquere» è, intanto, proposizione sostenibile in astratto solo ove si identifichi quest'ultima con la pericolosità sociale, la quale rileva più che ai fini della commisurazione della pena, ai fini di eventuali misure di sicurezza. Ciò non esclude che si possa tener conto anche della ridotta pericolosità sociale e di una attendibile prognosi di non recidiva quale elementi con cui riempire di contenuto la generica disposizione dell'art. 62 bis, ma a questo scopo ne occorre, comunque, una valutazione comparata con gli altri fattori idonei a incidere sulla commisurazione della pena (in tal senso, Cass. Sez.I, 17 marzo 1984, Guner Cuma, in Riv. pen.,1984, 974).
Analogamente dicasi per il dato concernente la non commissione da parte dei due imputati di ulteriori reati durante il lungo periodo in questione e, in generale, per la condotta di vita dagli stessi tenuta dopo la fine della guerra.
La comparazione a cui si deve procedere - come accennato - ha lo scopo di stabilire non se prevalgano gli elementi negativi o quelli positivi, ma quale sia il "peso" relativo degli elementi positivi individuati nell'ambito di tutte le risultanze attinenti al fatto e alla personalità degli imputati onde stabilire se essi emergano dal coacervo dei dati disponibili illuminando il complesso di realtà esaminato in modo apprezzabile. Solo ove si riscontri un simile "peso" si può ritenere che l'elemento o gli elementi considerati siano «tali da giustificare una diminuzione della pena».
Ad avviso di questa Corte il trascorrere del tempo senza la commissione di ulteriori reati e l'età avanzatissima dei due imputati appaiono dati del tutto marginali e trascurabili se collocati a contrasto con il barbaro eccidio di cui essi sono stati riconosciuti responsabili, e la cui inaudita gravità è complessivamente valutabile a questi fini in tutta la sua portata, non essendovi di ostacolo la scomponibilità nei singoli episodi di omicidio propria del reato continuato (così, Cass. Sez. Un., 15 marzo 1996, Panigoni, m. 203.978). Ma, se anche si potesse prescindere dai connotati oggettivi di inaudita gravità del fatto commesso, è la stessa valutazione della capacità criminale dei due imputati ad escludere che i dati come sopra rinvenuti non possano fondare la diminuente in questione.
Gli indici di rilevazione della capacità a delinquere di cui al secondo comma dell'art. 133 c.p. mostrano infatti come la tendenza criminosa dei due imputati manifestata nel delitto perpetrato sia pienamente radicata nella personalità degli autori, come tale delitto "appartenga" pienamente al loro modo d'essere e non costituisca un mero incidente di percorso. Si consideri come Hass abbia avuto ampie possibilità di sottrarsi all'esecuzione richiestagli e come invece sia rimasto insensibile ai segnali di manifesta disumanità che la realtà dell'eccidio conclamava, sicché non si può che ravvisare in un bieco opportunismo la motivazione che lo ha spinto all'azione; tale opportunismo lo si ritrova, del resto, nella sua ulteriore condotta di vita, nel corso della quale ha messo a disposizione i propri servigi per le cause più disparate, in una torbida condizione di semiclandestinità del tutto incompatibile con le esigenze di un riscatto limpido e lineare delle proprie colpe. In tale ottica si può spiegare anche l'episodio della sua collaborazione per la liberazione del prof. Vassalli, di cui è menzione nella sentenza appellata (p. 84), e che quindi non può assurgere a quel peso riconosciutogli dai giudici di primo grado.
Si consideri come Priebke abbia mostrato nel fatto commesso quella "glacialità" di carattere che lo aveva fatto emergere tra i collaboratori del Kappler e che lo rendeva il più simile al capo, l'obbedienza agli ordini del quale non era necessità eteroindotta, ma profondamente calata nel "comune sentire", nella "condivisione delle gioie e dei dolori". La spinta criminosa che mostra Priebke è frutto della immarcescibile certezza di essere nel "giusto", prima che soltanto nel "doveroso" e di questa professione di fede, non ignobilmente celata, ma perversamente proclamata, egli riempie con coerenza la propria vita, sino ad oggi. La sua età avanzatissima è in questo senso un valore profondamente negativo, giacché, seppure oggi egli non abbia per ovvie ragioni la medesima «pericolosità criminale» mostrata allora, mantiene completamente inalterata la sua «capacità a delinquere», intesa come capacità riflettente del fatto commesso nella personalità dell'autore.
Gli anni, in conclusione, sono passati inutilmente per Hass e Priebke, la cui vita vissuta appare la cinica conferma della ineguagliabile malvagità esibita nella commissione del reato; lungi dal poter essere invocati ai fini di una attenuazione della loro colpa, rappresentano la riprova della meritevolezza della massima pena.
3.3.15. La pena stabilita dalla legge per il reato del quale i due odierni imputati sono stati riconosciuti responsabili è l'ergastolo. Il comma 2 dell'art. 185 c.p.m.g. richiama infatti le pene stabilite dal codice penale per l'omicidio, dovendosi intendere il richiamo non limitato alla sola pena prevista per il reato base, ma esteso all'intero regime circostanziale speciale che correda l'incriminazione del delitto di omicidio nel codice comune. Sussistono, nel caso di specie, le due aggravanti contestate le quali comportano la pena detentiva perpetua (art. 577, nn. 3 e 4, c.p.). Non sussiste, invece, alcuna circostanza attenuante, dovendosi - come visto sopra - per questa parte riformare la sentenza di primo grado.
La comminatoria dell'ergastolo per il reato contestato e accertato con la presente sentenza esclude l'intervento in materia della prescrizione, prevista dall'art. 157 c.p. come causa estintiva del reato per il quale la legge commini una pena detentiva temporanea. Nessun rilievo può acquistare il fatto che l'ergastolo consegua nel caso in esame solo come effetto della sussistenza di circostanze aggravanti, non essendo anche contemplato per la figura base del reato di omicidio. Il comma 2 dell'art. 157 stabilisce infatti che per determinare il tempo necessario a prescrivere si tiene conto dell'aumento massimo stabilito per le circostanze aggravanti; applicando tale regola si perviene alla conclusione che nel caso di specie non ha luogo la prescrizione, non risultando determinato il tempo necessario a prescrivere quando la pena stabilita dalla legge per il reato consiste nell'ergastolo.
L'ergastolo viene applicato per la più grave delle violazioni commesse dai due imputati, per tale intendendosi uno dei delitti commessi da costoro come esecutori materiali.
Ad avviso di questa Corte la pena così individuata non può subire ulteriori inasprimenti per effetto della continuazione.
In primo luogo, infatti, la disciplina contenuta nell'art. 72 c.p., che prescrive un periodo di isolamento diurno in aggiunta alla pena dell'ergastolo, a titolo di aumento da applicare «al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importa la pena dell'ergastolo» o comunque «nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell'ergastolo, con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee per un tempo complessivo superiore a cinque anni», si deve ritenere letteralmente riferita al solo caso del concorso materiale di reati e non anche al caso del reato continuato, in cui il colpevole commette «più violazioni» della medesima o di diverse disposizioni di legge. Né vale obiettare che in tal modo non si può determinare l'aumento previsto dall'art. 81 c.p. («fino al triplo»), non potendosi proporzionalmente aumentare la pena detentiva perpetua, perché se il legislatore avesse voluto prevedere anche in questo caso un aumento o un aggravamento della pena lo avrebbe specificamente previsto con norma analoga a quella dell'art. 72. In mancanza di tale norma non è consentita alcuna estensione analogica e si deve piuttosto pensare che la rinuncia all'aggravamento della pena per il reato continuato quando per la violazione più grave è previsto l'ergastolo sia una modalità di espressione del più favorevole regime del c.d. cumulo giuridico come sostitutivo del c.d. cumulo materiale conseguente al concorso dei reati.
In secondo luogo, se anche si volessero ritenere non decisive tali argomentazioni e concludere nel senso opposto (così Cass. Sez. I, 21 aprile 1993, Feliciangeli, m. 193.730), occorrerebbe prendere atto che la disposizione dell'art. 72 c.p. è comunque inapplicabile per i reati militari, in quanto derogata da quella contenuta nell'art. 54 c.p.m.p. In detta disposizione si prevedeva che al colpevole di più reati puniti con l'ergastolo si applicasse la pena di morte. Caduto il riferimento alla pena di morte per effetto dell'art. 1, comma 1, d.l. 22 gennaio 1948, n.21, in relazione ai reati militari previsti nel codice penale militare di pace, esso è oggi pure caduto in forza dell'art. 1 l. 13 ottobre 1994, n. 589 in relazione ai reati militari previsti dal codice penale militare di guerra; resta, tuttavia la deroga alla norma comune, che oggi è quindi in senso favorevole al reo, dovendosi intendere operata la sostituzione della pena di morte con l'ergastolo. A nessun'altra conclusione potrebbe, infatti, giungersi, non avendo il legislatore provveduto né ad un esplicito richiamo dell'art. 72 c.p., né ad una esplicita abrogazione della norma speciale, né all'introduzione di un diverso regime autonomo. Che, infine, la caducazione operata con la citata legge del 1994 si applichi ai fatti di causa in forza dell'art. 2, comma 3, c.p., è conclusione pacifica, una volta escluso che possa ostarvi il già menzionato art. 23 c.p.m.g., il quale sancisce l'«ultrattività» della legge penale militare di guerra rispetto al passaggio nella legge di pace e a scapito delle disposizioni più favorevoli in questa contenute, non, comunque, l'immodificabilità della legge penale militare di guerra anche in tempo di pace. Per queste ragioni gli imputati Hass e Priebke vanno condannati alla pena dell'ergastolo, nonché alle spese del secondo grado di giudizio, ai sensi dell'art. 592, comma 1, c.p.p., con ogni altra conseguenza di legge.
3.3.16. Ai sensi dell'art. 541 c.p.p. gli imputati devono essere altresì condannati alla rifusione delle spese del giudizio di appello sostenute dalle parti civili. Esse sono liquidate in solido limitatamente alle costituzioni di parte civile avvenute nei confronti di entrambi gli imputati, mentre sono liquidate a carico di ciascun imputato nei casi di costituzione di parte civile avvenute nei confronti di uno solo di essi. Nella liquidazione che segue, anche a mente del disposto dell'art. 100; comma 3, c.p.p., si è tenuto conto, innanzitutto, della previa sussistenza delle relative delle procure speciali espressamente conferite ai difensori anche per il presente grado di giudizio e, quindi, delle parcelle da questi ultimi presentate. Non sono, pertanto, state tenute in considerazione tutte le ulteriori parcelle presentate da difensori delle parti civili che risultano sprovvisti di procure speciali per il presente secondo grado di giudizio.
A ciascuno dei seguenti difensori, inoltre, sono stati liquidati gli importi sotto specificati, oltre che sulla base della tariffa professionale e della parcella, in correlazione al numero delle parti civili rispettivamente rappresentate e difese, e dovendo essere ognuno di tali importi complessivi riferito a queste ultime in parti uguali tra di loro:
- avv. Sebastiano Di Lascio (difensore di n. 26 parti civili, come in intestazione, oltre che dell'A.N.F.I.M., che ha, però, rinunciato alla rifusione delle spese per il giudizio di appello) £. 6.468.750 (sessione in studio, £. 62.500; esame e studio, £. 50.000; partecipazione a sei udienze, £. 2.700.000; 5% x 26 di 2.812.500, 3.656.250);
- avv. Marcello Gentili (difensore di n. 35 parti civili, come in intestazione) £. 8.620.000 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a cinque udienze £. 2.250.000; 5% x 35 di £. 2.480.000, £. 4.340.000; cinque trasferte [£. 30.000 h x 12 h x 5], £. 1.1800.000);
- avv. Giancarlo Maniga (difensore di n. 33 parti civili, come in intestazione) £. 9.924.500 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio, £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a sei udienze, £. 2.700.000; 5% x 33 di £. 4.834.500; sei trasferte [£. 30.000 h x 12 h x 6], £. 2.160.000);
- avv. Domenico Panetta (difensore di n.1 parte civile, come in intestazione) £. 680.000 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio, £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a una udienza, £. 450.000);
- avv. M.Paola Di Biagio (quale difensore della parte civile Giuseppe Nobili) £. 1.130.000 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio, £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a due udienze, £. 900.000);
- avv. Nicola Lombardi (quale difensore della parte civile Milena Zaccagnini) £. 1.580.000 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio, £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a tre udienze, £. 1.350.000);
- avv. Bruno Andreozzi (quale difensore della parte civile Frascati Romolo) £. 1.580.000 (corrispondenza, £. 30.000; sessione in studio, £. 100.000; esame e studio, £. 100.000; partecipazione a tre udienze, £. 1.350.000).
A ciascuna delle somme totali liquidate deve essere aggiunto il 10% per rimborso forfettario delle spese generali, il 2% per Cassa Avvocati e il 20% per I.V.A.
P.Q.M.
Visti gli artt. 536, 541, 544 comma 3, 592, 597, 598 e 605 c.p.p., 19 e 261 c.p.m.p., 1 e segg. legge 7 maggio 1981 n. 180;
in parziale riforma della sentenza impugnata, escluse per entrambi gli imputati le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62 bis c.p. e 59 n. 1 c.p.m.p. e, per l'imputato Hass, anche quella di cui all'art. 59 n. 2 c.p.m.p.,
CONDANNA
Karl Hass ed Erich Priebke alla pena dell'ergastolo e, in solido, alle spese del secondo grado di giudizio, con ogni altra conseguenza di legge;
CONDANNA
i medesimi, singolarmente ed in solido limitatamente alle costituzioni di parte civili nei confronti di entrambi gli imputati, alla rifusione delle spese del giudizio di appello sostenute da queste ultime, nelle seguenti misure complessive:
parti rappresentate e difese dall' Avv. Sebastiano Di Lascio lire 6.468.750;
parti rappresentate e difese dall'Avv. Marcello Gentili lire 8.620.000;
parti rappresentate e difese dall'Avv. Giancarlo Maniga lire 9.924.500;
parti rappresentate e difese dall'Avv. Domenico Panetta lire 680.000;
parti rappresentate e difese dall'Avv. M. Paola Di Biagio lire 1.130.000;
parti rappresentate e difese dall'Avv. Nicola Lombardi lire 1.580.000;
parti rappresentate e difese dall'Avv. Bruno Andreozzi lire 1.580.000,
oltre 10 % per rimborso forfetario spese generali, 2 % per Cassa Avvocati e 20 % per i.v.a.; ciascuna di tali somme è determinata avute presenti le procure conferite anche per il presente grado di giudizio, le note spese presentate e sulla base di quote commisurate al numero delle parti rappresentate;
DISPONE
Ai sensi e per gli effetti dell'art. 36 c.p. la pubblicazione per estratto della presente sentenza sui quotidiani "Corriere della sera" e "Il Messaggero".
Conferma nel resto l'impugnata sentenza.
Deposito della sentenza entro il 15 aprile 1998.
Così deciso in Roma il sette marzo millenovecentonovantotto.
IL GIUDICE ESTENSORE
David BrunelliIL PRESIDENTE
Giuseppe Monica
[Source: Public Prosecutor v. Karl Hass and Erich Priebke, Sentenza della Corte Militare di Appello di Roma, Italy, 07 March 1998. By way of: Ministerio della Difesa]
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